Maiale, maledetto maiale. Tabuizzato in alcune culture, il sus scrofa domesticus, mammifero degli artiodattili non ruminanti, non gode di una buona fama neppure in quelle che non lo interdicono, e, sin dalla notte dei tempi, ne sfruttano sistematicamente i cospicui patrimoni alimentari. Già il filosofo greco Eraclito di Efeso (550 - 480 C.) si sente in dovere di stigmatizzare le discutibili abitudini igieniche dell’animale: “il porco gode nel fango e nel letame”, e anche “i porci godono della melma più che dell’acqua pura”.
Ma non è solo il filosofo del pànta rhei, “tutto scorre”, a mantenere un pregiudizio antisuino. Anche nella grande letteratura epica del mondo ellenico Omero raccoglie e rielabora la leggenda intorno alla maga Circe, che trasformava in porci gli uomini che l’assillavano con le loro continue profferte sessuali, figlie dei loro più bassi istinti:” li toccò subito / con la bacchetta e li serrò nei porcili. / Dei porci essi avevano il corpo: voci, setole / e aspetto. Ma come in passato la mente era salda. / Così essi furono chiusi, piangenti e Circe / gli gettò da mangiare le ghiande di leccio, di quercia / e corniolo, che mangiano sempre i maiali stesi sulla terra” (Odissea X, 240 e sgg, trad. Privitera, Mondadori). Anche i cristiani esprimono un parere negativo sul maiale e San Clemente d’Alessandria (150 - 215), teologo, apologeta e Padre della Chiesa, ne condanna la vorace ingordigia, attribuendo a chi si cibi delle carni di porco una natura sensuale e libidinosa. E non si smemori, poi, la parabola evangelica: “Non gettate le cose sante ai cani e le perle ai porci, perché non le mettano sotto le zampe e vi si volgano contro per sbranarvi” (Matteo VII, 6) chiaro monito ad astenersi dal rivelare le verità spirituali a chi non è degno di riceverle e in grado di apprezzarle.
E qual è l’animale metaforico più ottuso e opaco, simbolo dell’umana grossolanità? Ma il povero maiale, naturalmente! Rivalutato solo nel sudest asiatico dalle culture cino-vietnamite che ne fanno, in controtendenza col resto del mondo, la rappresentazione dell’abbondanza, e, in quell’area dell’oriente, l’immagine della scrofa col suo corteggio di maialini sta a significare il bene di una numerosa e prospera posterità.
Durissima, poi, col maiale la saggezza popolare dei proverbi: “Il porco, quando anche si vestisse d’oro, si sdraia sempre nel fango”, ovvero la propria vera natura negativa non può fare a meno di emergere clamorosamente; “prendere cani e porci”: accettare tutti, senza distinzione né selezione, ammettendo anche i porci, cioè i personaggi indegni; anche “fare la vita del beato porco” contiene il significato negativo di chi è solito trascorrere l’esistenza preoccupandosi solo di mangiare e poltrire; “delicato come il porco di Celestino che poppava la vacca”: anche qui si attribuisce al maiale un comportamento umano negativo, ovvero mostrare maniere raffinate, una gentilezza fuor di misura, un interesse affettato pur di raggiungere i propri scopi, non sempre onesti.
Insomma il porco, come l’avaro, tantum in funere prodest: è utile solo dopo la morte.
Oppure, come ebbe a dire Umberto Saba (1883-1957) in tempi di dimenticate polemiche letterarie, “il poeta è come il porco, si pesa dopo morto”.
Immarcescibile nella mia personale memoria, il ricordo dei panini con la porchetta: ovvero una spessa fetta di carne di maialino da latte arrostita e abbondantemente aromatizzata, tra due pezzi di pane casereccio a crosta scura, venduti sui banchi degli ambulanti, i porchettari, in occasione di feste e sagre della mia terra d’origine, Roma caput munni. Cibo saporoso e insieme delicato, meno calorico di quanto si potrebbe pensare, quella pagnottella al sapor di suino costava poco, nutriva il corpo e, riuscendo a sopire il senso di colpa per essermi cibato di una creatura del Signore, tirava su il morale.