In un tempo in cui l'amore prende tutti i colori possibili e immaginabili e una donna non è più una donna e un uomo più un uomo, accade che nel mondo dei normali di coloro, cioè, che vivono la vita quotidiana alle fondamenta invece che alla sommità, esistano ancora storie d'amore che pongono domande su come sia possibile amare così tanto e così a lungo.
Abbiamo già parlato della vicenda che ha visto protagonista suo malgrado Manolo Pieroni, un ragazzo lucchese che aveva avuto, tanti anni fa, la malaugurata idea di trasferirsi in cerca di sogni di gloria in Colombia. I suoi sogni, tuttavia, se anche in parte si sono avverati con l'apertura di un pub, non hanno visto alcuna gloria essendo svaniti una mattina all'aeroporto di Santiago de Cali, terza città per numero di abitanti del paese sudamericano.
La sua valigia conteneva, al check-in, la bellezza di sette chili di cocaina purissima. Chi, poi, ce l'avesse messa, è un fattore di per sé irrilevante, almeno per la polizia e la giustizia colombiane.
Manolo Pieroni comincia, così, a vivere il suo incubo chiuso in un carcere al confronto del quale le nostre prigioni sono hotel di lusso a cinque stelle. Inutile, per lui, professarsi innocente: nessuno gli avrebbe mai creduto nessuno, in fondo, aveva interesse a farlo. Così, quando il giudice gli appioppò 21 anni di reclusione, qualcosa dentro si spezzò e la disperazione prese il posto perfino dell'istinto di sopravvivenza e di conservazione.
Fu in quel momento, dopo un appello interiore a un Qualcuno che potesse provare a fare qualcosa, che Manolo Pieroni si vide comparire di fronte, prima solo per sms sul cellulare - anche in carcere, pagando, si poteva avere un telefonino - poi in viva voce e, infine, vis à vis, il volto di un angelo di nome Solange che non si sa bene come né perché aveva preso a interessarsi di lui. Anzi. Peggio pardon meglio. Aveva scelto, dentro di sé, che quello sarebbe stato l'uomo della sua vita.
Solange Del Carlo conosceva solo di vista Manolo Pieroni, avendolo incontrato ai bei tempi andati quando lui era ancora un giovane operaio abitante a Segromigno. Qualche saluto, qualche parola, ma niente di più, poi ognuno aveva perso le tracce dell'altro. Senonché Solange era amica di uno degli amici più cari di Manolo, uno di quelli che, saputa la drammatica vicenda, si era messo in testa di dargli una mano sia attraverso facebook sia cercando di non fargli mancare la vicinanza di qualcuno.
Così, una volta appresa la storia, Solange che lavorava e ha sempre lavorato come infermiera, ragazza carine e decisa, poche seghe per la testa e tanta determinazione, cominciò a pensare a come aiutare questo ragazzo che, indubbiamente, l'aveva sicuramente colpita le poche volte che lo aveva visto prima che partisse per la Colombia.
Lo avevo visto, effettivamente, tre mesi prima che partisse. Avevamo scambiato qualche impressione, poi ci eravamo salutati e io non ne avevo saputo più nulla - racconta Solange - Avevo facebook. Un nostro comune amico manda sulla mia bacheca un articolo che dice aiutami a condividere questa brutta faccenda. lo lessi e decisi che dovevo fare qualcosa per aiutare Manolo.
Perché l'ho fatto? - si domanda oggi la ragazza - Intanto a questo amico comune, Giuseppe, tenevo moltissimo. Qualsiasi cosa dicesse mi fidavo di lui. 'Dobbiamo aiutare Manolo, non ha fatto niente di male'. Era vero. Conoscevo molti poliziotti per il mio lavoro così riuscii a farmi mettere in contatto con Deborah, la sorella di Manolo dopodiché la incontrai per vedere che cosa potessi fare. Pensai molto in quei giorni, poi, alla fine, gli scrissi 'Ti prometto che per te farò qualcosa fino a quando non uscirai'. Era il 2014. Da quel momento non ci siamo più lasciati.
Per prima cosa - prosegue la donna - mi misi in moto per lavorare il più possibile e mettere i soldi da parte per partire quanto prima. E finalmente, nel maggio 2014, mi imbarcai su un volo che avrebbe effettuato qualche scalo prima di atterrare a Cali: Firenze-Amdsterdam-Madrid-Panama-Cali. Ero emozionatissima il giorno della mia partenza. Non vedevo l'ora di abbracciarlo e stare otto ore da sola con lui. Si poteva entrare in carcere dalle 9 alle 18.
Iniziò, così, un periodo incredibile che andò avanti per sei anni, 18 viaggi intercontinentali andata e ritorno e 12 mila euro spesi soltanto per ricariche telefoniche. Un amore senza fine che ha sfidato tutto, anche le umiliazioni a cui Solange Del Carlo è stata costretta a sottostare per poter vedere il proprio uomo. Una donna fuori dai canoni del nuovo pensiero unico dominante? Troppo innamorata e, quindi, troppo docile? Nemmeno a parlarne. Provate a conoscerla e ve ne accorgerete. Vi troverete davanti una ragazza determinata, che non ha mai smesso un attimo di credere che anche per lei e per lui sarebbe stata possibile una vita normale. E' lei stessa che racconta, sia pure in breve, ciò che ha dovuto sopportare in questi lunghi anni fino a quando, nel 2020, finalmente, è potuta tornare a casa con il suo Manolo:
Ricordo ancora come se fosse ora il mio primo viaggio in Colombia. Non parlavo una sola parola di spagnolo. Non ero mai stata in quel paese. All'aeroporto presi un taxi che mi portò di fronte al carcere dove c'era un appartamento in casa di una signora che aveva il marito in cella con Manolo. Era stato Manolo a preparare il tutto, ovviamente pagando con i soldi che gli mandavamo da casa. Fui accolta bene anche se per me era difficile farmi capire. La domenica successiva entrai in carcere e riuscii a vederlo. Per arrivare a quel momento passai tutta la notte in fila con le altre donne che attendevano, come me, di vedere i propri compagni. io avevo 466 ragazze prima di me.
Ci avevano fatto entrare, per prima cosa, in un tunnel, una sorta di tubo al freddo con noi tutte in fila una dietro l'altra. Non potevamo muoverci perché era strettissimo. Alle 4 di notte arrivò un poliziotto chiamato dragoniante che mi afferrò il braccio destro con violenza e mi disse: questo è un timbro sul braccio con il numero. Poi un altro timbro. Aprì finalmente la porta, io entrai e cominciarono i cinque controlli con le relative perquisizioni. Cinque dragonianti la prima perquisizione, cinque uomini e due cani che ti dicono di allargare le gambe e ti controllano davanti e dietro passandoti una specie di lastra. Ovviamente i commenti si sprecavano: deliziosa, preziosa, sei straniera...
Quindi una seconda perquisizione con altri cinque dragonianti e un cane antidroga che ti annusa ovunque e se mostri paura torni indietro alla prima perquisizione ricominciando tutto daccapo. Il cane ti odorava e loro ti passavano accanto senza dire nulla.
Alla terza perquisizione mi misero seduta su una piastra e mi fecero sganciare il reggiseno perché chi ha il seno grosso potrebbe nascondere droga. In carcere, va detto, c'è una prostituzione galoppante e con i soldi si può avere tutto. La quarta perquisizione prevedeva la presenza di altre quattro donne oltre a me e di cinque uomini. Con una sistola mi fecero la doccia soprattutto sulla testa per eliminare eventuali presenze di cocaina sulle extension o sulle trecce. Anche questo era un modo utilizzato dalle visitatrici per portare droga in carcere. Infine la quinta perquisizione con altri cinque dragonianti due dei quali mi presero i capelli e li passarono al setaccio con un rastrello mentre un altro mi sottoponeva ad un controllo orale per vedere se nascondevo qualcosa in bocca, nei denti o nel naso. Questo accadeva ogni volta ossia ogni domenica che andavo a visitare Manolo. Non parliamo, poi, del controllo sotto le unghie dei piedi. Gli agenti sono molto perché le colombiane fanno casino. Urlavano dicendoci che noi siamo polli.
Finalmente vidi Manolo che mi aveva preparato tanti piccoli regali sul letto, lettere, pupazzi, una scatolina porta gioielli, braccialettini, tutti i regali che aveva messo da parte e fatte con tanto amore perché non si potevano tenere e se venivano scoperti la polizia spaccava tutto. Portano i cani apposta che fanno la pipi nelle celle dei detenuti. Ci abbracciamo e restammo otto ore nella cella insieme perché laggiù le donne possono stare con i loro mariti in intimità. Ero disperata, ma felice e mi rendevo conto che dovevo essere forte per essere come lui. Sapevo che in fondo al tunne c'era lui e che, quindi, potevo sopportare tutto.
Quando partivo, restavo anche due mesi, ma potevo vederlo solamente la domenica e soltanto dopo aver passato i cinque controlli. Allora gli altri giorni andavo sotto il carcere, pregavo e piangevo. Ascoltavo canzoni di un detenuto le cui parole parlavano di mancato rispetto dei diritti umani e della mancanza della propria donna. Devo ringraziare il mio datore di lavoro che mi ha sempre concesso dei permessi sapendo che, comunque, quando tornavo avrei dato il massimo per ringraziarlo. E' stata dura, ma alla fine ce l'abbiamo fatta.
Adesso Solange si è sposata in comune a Capannori dopo essersi già sposata in carcere durante la prigionia del marito. La coppia ha un bambino e Manolo è diventato, a tutti gli effetti, un pastore protestante. La sua fede in Dio si è accresciuta notevolmente e la felicità è tornata a bussare alla sua porta. "Solo Dio - è solito esclamare - può aver deciso di mandarmi questo angelo per aiutarmi a uscire dall'inferno".