Giosalpino, Linchetto, Marmaccia, Berlicche, Buffardello, Forforello, Calcavecchia, Caibbe, Busdraga, Streghi, Serpente Volastro, Senzossi, Ossogamba, Nerin Nerone, Lupomannaro... Questi sono alcuni dei nomi degli esseri spaventevoli e fiabeschi che hanno popolato per generazioni le fantasie dei versiliesi, degli apuani, dei garfagnini, dei lucchesi. Invenzioni, non di rado provviste di caratteri marcatamente pedagogici, educativi, direttivi… Perché, per dirla con lo scrittore trecentesco Franco Sacchetti e il suo Il Trecentonovelle, “Gnuna cosa fa trottare, quanto la paura”.
Fantasie paurose, naturalmente. Perché “l’emozione più antica e più intensa del genere umano è la paura, e la paura più vecchia e più forte è la paura dell’ignoto”, come ebbe ad affermare Howard Philip Lovecraft (1890 – 1937), uno dei più geniali creatori del fantastico del secolo scorso, erede della tradizione gotica e di Edgar Allan Poe. nonché “padre” di Stephen King.
C’è un filo tenacissimo che lega gli orchi, le streghe, i lupi mannari, le cattive matrigne, i filtri magici, i boschi di notte e i suoi misteriosi abitatori e tutti i luoghi ricorrenti della oralità e della letteratura popolare, con il romanzo gotico, quello d’appendice, il giallo, la fantascienza, l’horror di tanti best seller di successo, di tanto cinema e fumetto attuali, di tante leggende metropolitane. Insomma, attrazione e repulsione per la paura sono gli stati d’animo contrapposti e complementari che da secoli, da millenni, da quando esiste l’umanissimo piacere del raccontare, si mescolano deliziosamente nell’animo di chi ascolta, legge, guarda. E perché proprio la Toscana sembra essere così ricca di storie di paura? Forse perché le dimensioni provinciali delle sue città, l’armonia delle piazze e delle strutture urbanistiche si prestano a nascondere meglio di altri luoghi oscure vicende di violenze e ruberie, di insidie amorose e di torbidi intrighi politici…
Sentimento tutt’altro che biasimevole la paura. Declinato nelle sue varie sfumature e accezioni, esso ci avverte di una situazione di pericolo e ci sollecita a organizzare le difese e le strategie d’uscita dall’emergenza che ci assilla: lo ben aveva compreso lo scrittore e uomo politico conservatore inglese Edmund Burke (1729 – 1797) che, nella sua polemica contro la rivoluzione francese e l’angoscia che ispirava ai suoi contemporanei, ribadì il concetto secondo il quale “una vigile e provvida paura è la madre della sicurezza.”
C’è poi anche un piacere nella paura. Sì, è dalla notte dei tempi che si prova un’intensa soddisfazione ad avere paura: una strana forma di ebbrezza, un’attrazione, con un termine desueto, una voluttà.
Cambiano gli scenari, mutano gli sfondi, la paura resta sempre la stessa: un sentimento atavico, primordiale, implicito nel nostro codice genetico, sempre legato al mistero di un nemico dai contorni imprecisi, indeterminati e per questo motivo ancora più orribile e spaventoso. È, in fondo, la paura è il più creativo tra gli stati d’animo. Essa agisce sull’uomo creando e ricreando le forme più problematiche, mature e profonde della sua dimensione interiore: i loro riflessi li ritroviamo nella nostra vita nelle innumerevoli opere dell’arte e della cultura che ne segnano l’esistere e la storia.