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Scritto da luciano luciani
StoricaMente
27 Maggio 2024

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Alto, stralunato, la lunga barba incolta, gli abiti perennemente stazzonati, povero come poteva esserlo soltanto un giovane poeta della bohème milanese negli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia. Si chiamava Iginio Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839 – Milano 1869) e per vivere scriveva racconti e romanzi pubblicati a puntate sulla stampa d’opposizione dell’epoca. Oggi, di questo letterato si ricordano più le stranezze che i versi o le pagine in prosa. I suoi rari biografi raccontano, per esempio, della sua vita nel capoluogo lombardo, romanticamente dissipata; dei suoi amori tormentati e, negli ultimi anni della sua breve esistenza, della sua ultima fissazione: girare per i viali dei cimiteri milanesi, attività che lo aveva reso familiare a custodi e becchini, tutto preso nella lettura delle lapidi tombali. A un personaggio così eccentrico e bizzarro dobbiamo, però, il primo romanzo antimilitarista della letteratura dell’Italia unita, pubblicato in assoluta controtendenza rispetto al senso comune del suo tempo, quando erano ancora caldi, anzi ardenti, gli ‘eroici furori’ risorgimentali. In un paese tanto malamente organizzato e socialmente ingiusto quanto impegnato a celebrare l’epopea della propria unità, Una nobile follia del Tarchetti, si propose fin da subito come vero e proprio incunabolo dell’ideologia pacifista proprio negli anni in cui l’esaltazione patriottica si trasformava in vieto nazionalismo. Suo obiettivo polemico il militarismo e insieme i valori risorgimentali.

Il romanzo racconta la storia di Vincenzo D., giovane colto e sensibile, amante della natura e dell’arte, innamorato di una donna, incapace di violenza, che viene chiamato a prestare il servizio militare: “Incominciò la mia notte: notte immensa, tenebrosa, terribile… Fui soldato. Questa parola esprime tutto. Affetti, memorie, doveri, aspirazioni, diritti, indipendenza, dignità conculcata – assoldato, tenuto a soldo, venduto”.

Nelle esperienze della vita militare del protagonista l’assimilazione dolorosa e forzata della disciplina coincide con il progressivo annullamento della propria personalità: “così si uccide un uomo e si forma un soldato, - la nazione lo tollera, vi ha di più, la nazione applaude, illusa come un fanciullo insensato alla vista dei pennacchi azzurri, delle sciabole lucide, e del suono delle trombette: i pochi onesti fremono e tacciono”.

Ridotto a una macchina per uccidere, Vincenzo parte per la guerra, quella di Crimea (1852 – 1855) e il 16 agosto 1855 partecipa alla battaglia del fiume Cernaia. Tarchetti descrive questa vicenda bellica, che nei manuali di storia viene ancora oggi presentata come ‘strategica’ nella politica estera cavourriana di inserimento del piccolo regno di Sardegna nella grande politica europea, come quello che in realtà fu: un macello, un massacro crudele e insensato, privo di ogni attrazione eroica ed estetica. Lo scrittore non tace nulla al lettore, insistendo, anzi, sugli aspetti più macabri, ripugnanti di quello scontro armato, di ogni scontro armato: “Allora viene emanato un ordine terribile: - innalzare una trincea di cadaveri. - Ci accingiamo unanimi e impazienti a questo lavoro. I cavalli feriti o morti sono trascinati pel campo e collocati d’innanzi alle nostre linee, i corpi dei russi e dei sardi sovrapposti ad essi, e disposti a larghi strati incrociati; noi li cerchiamo frettolosi per la pianura, e non abbiamo tempo a riconoscere se non sieno ancora spirati…Noi ci collochiamo dietro quel vallo di carne; ci afferriamo ai capelli o ai piedi dei morti, e spariamo contro il nemico, spingendo le nostre carabine negli spazi esistenti tra l’uno e l’altro cadavere”.

Nel feroce corpo a corpo successivo all’ultima carica della cavalleria russa contro lo schieramento sardo, Vincenzo D. colpisce mortalmente un nemico, un giovane ufficiale polacco di sentimenti patriottici e liberali, e assiste alla sua agonia.

- Oh vivi - esclamai gettandomi sopra di lui - vivi -; e prorompendo in lacrime, tentai di abbracciarlo, quasi avessi potuto infondergli con quell’amplesso la vita giovine e vigorosa che ardeva in tutte le mie fibre. Ma a mezzo atto me ne trattenni: egli aveva richiusi gli occhi, e il sangue gli usciva in maggior copia dalla ferita, fui atterrito: dopo un istante incominciò a delirare…”. Una terribile esperienza che favorisce la fuga dal campo di battaglia, la diserzione del protagonista, al quale, dopo la perdita della donna amata, non resterà che la pazzia e il suicidio.

La pubblicazione di Una nobile follia suscitò sensazione e scandalo e valse al suo giovane autore una certa fama, sia pure ‘maledetta’. Tarchetti divenne agli occhi di settori minoritari, ma importanti, di opinione pubblica italiana il “corifeo di una battaglia contro il conformismo e la tradizione più gretta rappresentata dall’istituzione militare in nome di un ideale umanitario, ideologicamente imprecisato, ma ricco di una forte carica suggestiva” (Ghidetti).

I vertici delle gerarchie militari, allora, preoccupati della circolazione e dei favorevoli riscontri di pubblico ottenuti da Una nobile follia operarono per correre ai ripari e presentare l’istituzione militare in una luce più positiva: si affidarono quindi alla bella penna di un giovane tenente che esordiva in quegli anni alla carriera giornalistico-letteraria, Edmondo De Amicis (Oneglia 1846 – Bordighera 1908), giovane direttore dell’”Italia militare”, organo del Ministero della guerra. Nacque così La vita militare (1868), primo grande successo dell’autore di Cuore, venti convenzionali, accattivanti bozzetti sull’esercito e i suoi personaggi di sempre: coscritti semplici e ingenui, sottufficiali burberi, graduati ricchi di umanità, eroici caduti, feriti valorosi, mutilati… I ricordi delle campagne del 1866, il ruolo svolto dall’esercito italiano durante il colera del 1867…

Nulla di più lontano dall’aspro antimilitarismo ‘a tesi’ del Tarchetti!

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