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Scritto da Redazione
Cronaca
28 Gennaio 2020

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Non solo Shoah al liceo Vallisneri per celebrare il giorno della memoria. La scuola di S. Anna, infatti, non soltanto ha inaugurato ieri la manifestazione alla presenza delle autorità politiche e amministrative nel ricordo dello sterminio degli ebrei e non solo durante il secondo conflitto mondiale, ma, grazie anche alla sensibilità di alcuni docenti, ha aperto le porte anche ad una memoria che, purtroppo, non sempre riesce a trovare spazio e ascolto nelle rievocazioni istituzionali. 

Se ieri pomeriggio, come era stato programmato, i ragazzi hanno assistito, tra l'altro, anche alla proiezione del documentario sulla vita dell'allenatore ebreo ungherese Ernő Egri Erbstein ex tecnico della Lucchese e deceduto nella tragedia di Superga, questa mattina è stata la volta di Giovanni Ricci, figlio di Domenico, l'autista di Aldo Moro trucidato a Via Fani il 16 marzo 1978, presidente dell'associazione Caduti di via Fani e di Giampaolo Mattei, sopravvissuto alla strage di Primavalle messa a segno da alcuni esponenti di Potere Operaio a Roma nel 1973.

Il giorno della memoria non può essere soltanto quello in cui si ricordano le vittime dell'Olocausto, ma dovrebbe essere allargato anche a tutti quei morti la cui memoria, per un motivo o per l'altro, è stata più volte dimenticata e, spesso, volutamente, per via di quelle strumentalizzazioni che, sovente, la politica riserva alle vicende della vita. Bene, quindi, ha fatto la dirigente scolastica del Vallisneri ad approvare l'iniziativa che ha consentito ai ragazzi sia di avere uno squarcio, il solito, tutti gli anni, sull'indimenticabile tragico destino degli ebrei, ma anche di apprendere, dalla diretta voce di due dei suoi involontari e sfortunati protagonisti, storie e vicissitudini che troppo spesso si fa finta di non voler rammentare.

Noi ci siamo imbattuti nella strage di via Fani molti anni fa, quando vivevamo a Roma, nel 1978 quartiere Prati. Ricordiamo per filo e per segno il periodo successivo alla strage e il clima che si respirava a Roma. Indimenticabili per chi li ha vissuti. Poi, per ragioni di carattere affettivo prima, professionale, poi, ci siamo più volte imbattuti in coloro che presero parte a quell'assalto di quella mattina di marzo del 1978. Nel nostro libro L'ultimo brigatista, raccontammo per la prima volta la vita e la storia di Raffaele Fiore, l'uomo che uccise proprio Domenico Ricci insieme a Valerio Morucci nell'auto dei carabinieri sulla quale si trovava anche il maresciallo Leonardi. Fiore restò anche una settimana qui a Lucca, nostro ospite, per dare una ultima occhiata al libro. Era rinchiuso nel carcere di Piacenza ed era la prima volta che aveva la possibilità di stare a due passi dal mare dopo anni e anni di prigione.

Giovanni Ricci è stato, potrà sembrare strano, nostro cugino acquisito visto che, tanti anni fa, sposammo la figlia di suo zio nonché fratello di suo padre, Giuseppe Ricci. Entrambi, Domenico e Giuseppe, nativi di Staffolo, paesino sulle colline di Jesi in terra marchigiana, gente operosa, dilagante mezzadria e vita tutt'altro che facile.

Sia Giuseppe sia Domenico erano entrati nell'Arma e quest'ultimo faceva parte a tutti gli effetti della scorta del presidente della Dc Aldo Moro. "Mio padre lo vedevamo solamente il 6 gennaio - raccontava ieri sera a cena Giovanni Ricci - A Natale, a capodanno, a Pasqua, era sempre con Moro. Il 6 gennaio andavamo ad Ostia, da mia nonna, e lì trascorrevamo la giornata della Befana. Noi, io e Giampaolo con il quale sono divenuto grande amico, non facciamo le vittime e quando raccontiamo la nostra storia non ci piace farci compiangere. Le nostre sono storie di persone che hanno reagito, che hanno vissuto, che sono qua per raccontare a chi nemmeno se le ricorda dove può arrivare l'odio politico se non si ferma in tempo".

Le Brigate Rosse volevano rovesciare il sistema, instaurare la dittatura del proletariato guidato da un'avanguardia combattente, hanno ucciso e distrutto famiglie, affetti, professioni, vite. Abbiamo visto tutti come è andata a finire. Adesso ci sono rimasti quelli che hanno pagato sulla propria pelle l'assenza di chi, purtroppo, non c'è più. La loro memoria dovrebbe essere valida per tutti, per chi sta a destra così come per chi sta a sinistra. La memoria dovrebbe unire, non dividere, coinvolgere, non allontanare.

In tempi di rinnovato odio politico strumentalizzato da chi vuole a tutti i costi vedere il nemico anche dove non c'è, sarebbe giusto ricordare, soprattutto, per pacificare gli animi in nome di una verità storica il più oggettiva possibile, ma al di fuori delle strumentalizzazioni di una classe politica che fa, semplicemente, schifo comunque la si guardi, ma che lo fa un po' di più proprio laddove, a sinistra, dovrebbe essere, al contrario, più giusta e più vera. Così, purtroppo, non è e si utilizza l'antisemitismo di 80 anni fa per combattere chi la pensa diversamente.

Ecco perché agli studenti del Vallisneri farà senz'altro bene conoscere anche la storia di Giampaolo Mattei, uno dei sei figli di una modesta famiglia che, nel lontano 1973, abitava nel quartiere periferico  di Primavalle. "Per dare un'idea di che cosa fosse Primavalle a quei tempi - ricorda Mattei - basti pensare ad una enorme fetta di cocomero di colore rosso e un solo semino di colore nero. Ecco, quel semino era la sezione del Msi guidata da mio padre che era stato messo lì proprio da Giorgio Almirante".

Ai giovani lucchesi che conosceranno sicuramente Auschwitz e Birkenau, Mauthausen e Dachau, ma non avranno mai sentito parlare di Virgilio e Stefano Mattei né dei loro carnefici Achille Lollo, Marino Clavo, Manlio Grillo, le parole di Giampaolo Mattei, che all'epoca dei fatti aveva appena tre anni, forse faranno aprire gli occhi.

C'è stato un periodo, nella storia di questo paese, in cui la guerra civile ha visto contrapporsi, da una parte e dall'altra, la migliore gioventù o, almeno, una buona parte di essa, che si uccise senza pietà in nome di o contro lo stesso ideale. Mario Mattei era il segretario della sezione di Primavalle del partito di Almirante, era, insomma, un fascista quando, badate bene, definirsi o definire fascista qualcuno aveva ancora un senso e non come oggi che questo senso, ormai, non esiste più.

A Primavalle, però, erano tutti di sinistra e tutti o quasi legati alla sinistra extraparlamentare. Quella notte, la notte del 16 aprile 1973 la casa dove vivevano, in otto, moglie, marito e sei figli, i Mattei, fu data alle fiamme dopo aver cosparso di benzina la soglia dell'abitazione e aver appiccato il fuoco. Morirono, carbonizzati, Stefano che aveva 8 anni e Virgilio che ne aveva 22. Fu una morte atroce. Gli altri quattro figli si salvarono a stento, chi gettandosi dalla finestra, chi venendo strappato alla morte, miracolosamente, dai genitori.

I fratelli Mattei, però, non hanno mai avuto, fino a qualche lustro fa, il diritto ad un giorno della memoria tutto per loro. Anzi. In fondo, davano fastidio ed erano scomodi un po' per tutti, soprattutto per tutti quegli pseudorivoluzionari e intellettuali radical-chic che avevano sempre sostenuto essersi trattato di un regolamento di conti interno alle fazioni missine e neofasciste.

Noi, che a Roma abbiamo vissuto proprio in quegli anni, ricordiamo bene la mattina del 28 febbraio 1975. Abitavamo al quartiere Prati e proprio al palazzo di Giustizia era in corso il processo per il rogo di Primavalle contro Achille Lollo, il peggiore, il più bastardo di tutti. Sapeva bene di essere stato l'autore della strage e con lui lo sapevano i Piperno, i Morucci, gli Scalzone, tutti i militanti di Potop e della sinistra extraparlamentare, ma nessuno ebbe il coraggio di assumersi le responsabilità di quell'omicidio. 

E quella mattina, proprio per protestare contro la Giustizia Fascista che se la prendeva con un innocente come Lollo, fu deciso di assalire la sede del Movimento Sociale Italiano di via Ottaviano, accanto a piazza Risorgimento. Fu un massacro. Alvaro Lojacono detto Varo, militante di Potop, figlio di un dirigente del Pci, futuro esponente delle Brigate Rosse per le quali ha ucciso più volte, sparò e ammazzò un giovane studente greco, Mikis Mantakas e per questo omicidio, così come per la strage di via Fani, non ha mai fatto un solo giorno di galera.

Avete mai sentito parlare di un giorno della memoria anche per questi morti senza valore?

Per decenni nessuno ebbe il coraggio di dire la verità. Solo noi, nel 2003, in un libro apparso nella collana Einaudi degli Struzzi, La generazione degli anni perduti che l'ex sindaco Pietro Fazzi, coraggiosamente, ci fece presentare a Lucca, raccontammo, grazie alle confessioni dei Novak e dei Morucci, come erano andate, effettivamente, le cose e come, dietro la strage dei fratelli Mattei ci fossero, da un lato, l'odio politico smisurato di una parte politica verso l'altra, dall'altro la vergognosa mistificazione e deformazione della verità operata, come accade anche oggi, dai mass media che già allora parteggiavano apertamente per la sinistra extraparlamentare e che costituivano quella cosiddetta area di contiguità che fu tanto restìa a schierarsi contro il nascente fenomeno del terrorismo di sinistra.

Certo, cari ragazzi, care sardine, facile essere tutti dalla parte degli ebrei anche quando, ormai, fascisti e nazisti, almeno a queste latitudini, ne sono rimasti pochi e, per quei pochi, basterebbe riaprire i manicomi criminali. Più difficile scoprire che oggi l'antisemitismo sta di casa, purtroppo, laddove, in parte, è sempre stato, a sinistra e, soprattutto, tra coloro che professano l'Islam. Questi sono, oggi, i veri nemici di Israele e degli ebrei e chi distingue tra la prima e i secondi non ha capito niente. Come ha scritto bene Fiamma Nierestein, oggi siamo tutti Israele.

Quanto al resto, più difficile è stare con la memoria a prescindere cercare, cioè, di comprendere dove stanno le vere vittime di ogni situazione, senza colori rossi o neri, ma sempre con la voglia di comprendere le ragioni ultime delle cose. E per poter fare questo non serve né basta scendere in piazza per protestare, ma bisogna leggere, leggere e ancora leggere. E studiare . E non sottrarsi alla ricerca di testimoni che possano aiutare ad aprire la mente.

Ecco perché riteniamo che il liceo Vallisneri abbia fatto una bella cosa. E bello sarebbe se ogni anno, da destra e da sinistra, la memoria fosse stimolo ad una riappacificazione che non vuol dire negazionismo in un senso o nell'altro, ma disponibilità a riappropriarci della propria identità nazionale che è, volenti o nolenti, uguale per tutti.

Foto Ciprian Gheorghita

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