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Scritto da andrea cosimini
Cultura
23 Agosto 2022

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Posso affermare questo: non c'è esperienza per quanto importante, non c'è rassegnazione per quanto assoluta, non c'è saggezza per quanto profonda che ci possa impedire di concedere un'ultima possibilità alla fortuna.

La frase non è nostra, ma di uno scrittore ungherese, premio Nobel per la letteratura: Imre Kertész. Il libro che la contiene si intitola Roman Eines Schicksallosen - in italiano Essere senza destino - ed è uno dei più intensi mai scritti sul mondo concentrazionario.

Ascoltando prima - e trascrivendo poi - la storia di Clèmentine Pacmogda, inevitabilmente queste parole hanno risuonato dentro di noi. L'eccezionale vita di questa donna (originaria del Burkina Faso, ma cittadina italiana a tutti gli effetti) è una testimonianza di lotta per la sopravvivenza e un esempio di fede incrollabile - non tanto nella fortuna, quanto in Dio.

Oggi Clèmentine è una donna matura che può raccontare e scrivere - con orgoglio, ma anche con il necessario distacco - il calvario che ha dovuto subire per guadagnarsi il diritto che ogni essere umano, in qualsiasi posto del mondo, dovrebbe vedersi riconoscere per principio: quello di vivere umanamente inseguendo le sue naturali inclinazioni. Nel suo caso: lo studio. 

Dalla Costa d'Avorio (dov'è nata) al Burkina Faso (dov'è cresciuta), fino all'Italia che l'ha accolta tra mille difficoltà burocratiche: un lungo viaggio nella vita di questa resiliente scrittrice che oggi - assieme a suo marito Dario e a sua figlia Eufrasia - vive a Borgo Taro, in provincia di Parma, dove esercita la professione di insegnante e pubblica libri. 

Bella, solare, simpatica: Clèmentine, con il suo raggiante sorriso ed il suo lucente abito floreale, ci accoglie come un amico di vecchia data: cingendoci forte con un caloroso abbraccio. Seduti ad un bar di Barga, le porgiamo religiosamente l'orecchio come rapiti dalla potenza evocativa del suo racconto.

Da dove viene Clèmentine Pacmogda?

"Il mio nome completo è Talatou Clementine Pacmogda: Talatou, nella mia lingua di origine, significa "martedì" (ovvero il giorno in cui sono nata); mentre Clèmentine, è facile intuirlo, dai famosi agrumi. Sono nata in Costa d'Avorio, perché i miei genitori, pur essendo burkinabè, erano migrati lì; poi, però, mi hanno riportata subito in Burkina Faso, dove sono effettivamente cresciuta".

C'è un episodio della sua infanzia che ricorda con particolare nitidezza?

"Sì. Il giorno in cui uccisero il rivoluzionario Thomas Sankara nel 1987. Avevo solo 10 anni. Ricordo che era il 15 ottobre ed io ero a scuola a giocare assieme ad altri bambini; vidi arrivare mia zia di corsa, la quale mi intimò di tornare subito a casa perché era stato assassinato il presidente ed avrebbero introdotto il coprifuoco. Era la prima volta che sentivo questa parola e ne ero spaventata".

Perché fu importante questo presidente per il Burkina Faso?

"Perché riuscì a convincerci a vivere con dignità, nonostante tutti i nostri problemi. Ci fece capire che assieme avremmo trovato una soluzione: ci insegnò a pulire da soli le nostre scuole, a piantare gli alberi, a vestirci con i tessuti dei nostri artigiani. Insomma, ci spiegò che, se volevamo uscire dalla nostra povertà, avremmo dovuto rimboccarci le maniche Fu lui, poi, a cambiare il nome del nostro paese che prima si chiamava Alto Volta".

Cosa significa Burkina Faso?

"Nella lingua More, Burkina significa "integrità, onestà", mentre Faso - secondo un'altra delle lingue locali dello stato - sta per "paese". Quindi, letteralmente, Burkina Faso è il "Paese degli uomini integri".

Lei è laureata?

"Sì, ho conseguito la laurea magistrale in linguistica e mi sono poi specializzata in onomastica. Mi interessava studiare la storia dei nomi dei miei paesi perché al loro interno si possono leggere i movimenti delle popolazioni locali. Poi ho approfondito il rapporto fra l'espressione temporale francese e quella More per comprendere le somiglianze e le differenze che possono creare problemi di apprendimento".

Quali difficoltà ha incontrato nel suo percorso di studi?

"Principalmente di natura economica: volevo a tutti i costi continuare a studiare, ma non avevo le risorse per farlo. Non ho potuto contare sul sostegno dei familiari, anche perché sono diventata orfana di mio padre molto presto. Questa storia comunque la racconto in dettaglio nel mio secondo libro Wendyam! - La volontà di Dio, edito da Tralerighe Libri".

L'essere donna l'ha, in quale modo, ostacolata nel suo cammino scolastico?

"Sì, in quanto donna, mi dicevano che troppi titoli di studio non mi avrebbero fatto bene perché rischiavo di non trovare un marito, visto che già sono pochi gli uomini che hanno la maturità al mio paese... Chi avrebbe voluto sposare una donna con un titolo universitario? Come se io fossi nata per sposarmi: io sono nata per vivere innanzitutto".

Ma le piaceva studiare?

"Tantissimo. Sono sempre stata una delle prime della classe, nonostante tutto. Non mi sono mai abbattuta: ho fatto le pulizie per pagarmi l'iscrizione all'università, ma, quando arrivai all'ateneo, mi dissero che era tardi per fare domanda. All'inizio mi abbattei a tal punto da paralizzarmi; poi, però, prevalse in me la determinazione di voler raggiungere l'obiettivo a tutti i costi. Ebbi fortuna, riuscii ad iscrivermi fuori tempo massimo grazie ad una mezza bugia che non so come mi venne allora, ma che, col senno di poi, mi salvò la vita".

Come affrontò poi gli anni accademici?

"Innanzitutto, una volta iscritta, tutti mi sconsigliarono di prendere l'indirizzo di linguistica; nonostante questo, lo presi ed è proprio grazie a questa decisione, fatta di nascosto, se oggi mi trovo qui, in Italia". 

Lei è una ostinata...

"Sono fatta così: quando sono convinta di una cosa, nulla mi smuove. Non sono una persona che prende le decisioni alla leggera, rifletto sempre tanto prima di scegliere. Poi, però, quando arrivo a fare una scelta è difficile che qualcuno possa farmi cambiare opinione".

L'iscrizione in ritardo le creò dei problemi?

"No, perché io a scuola non andavo per giocare. Studiavo tanto, giorno e notte. Nel giro di un mesetto mi rimisi in pari. Finito il primo anno accademico, venni convocata dalle mie insegnanti le quali si complimentarono con me e mi incitarono a continuare nello studio. Io volevo, ma non avevo soldi nemmeno per mangiare a mensa". 

E come fece?

"Cercai un sostegno ovunque: dagli orfanotrofi al ministero delle politiche sociali, ma niente. Quindi mi rivolsi ad un gruppo di preghiera. Alla fine, venni indirizzata da un padre missionario. Davanti a lui scoppiai in un pianto liberatorio. Tutta la forza che avevo avuto fino a quel giorno, mi lasciò improvvisamente. Lui rimase sorpreso, ma poi mi chiese di calmarmi e di raccontare il mio problema. Mi salvò. Con il suo aiuto economico riuscii ad iscrivermi al secondo anno. Avrei voluto coprirlo di baci: ero al settimo cielo".

E l'Italia?

"Grazie ad una borsa di studio nel 2008 per accedere alla Normale di Pisa. La vinsi e partii per l'Italia in aereo, facendo scalo prima a Casablanca, poi a Roma. Era la prima volta che mettevo piede fuori dall'Africa. Fu uno choc arrivare all'areoporto di Fiumicino. Nessuno mi capiva e io non capivo nessuno. Ero come in un altro mondo. Questa borsa di studio, comunque, mi salvò la vita due volte: non solo mi permise di terminare gli studi, ma mi consentì inoltre di curarmi da una grave malattia del sangue che mi era stata diagnosticata, fortunatamente, in tempo. Nella vita, a volte, accadono i miracoli".

È stato facile ottenere il visto?

"No, ma per motivi soprattutto burocratici. Il Burkina Faso non ha l'ambasciata, quindi bisogna rivolgersi a quella della Costa d'Avorio. Per farlo, però, è necessario chiamare da un numero ivoriano. Non le dico cosa ho sofferto. È stato inumano. Racconto tutto il calvario nel mio primo libro Basnewende, edito per Place Book Publishing, collana Gli Aedi". 

Cosa crede che l'abbia salvata nella vita?

"Il fatto di essere stata sempre una credente. Ho pregato per chiedere il lavoro, per andare all'università... Non avevo nessuno per potermi confidare nei momenti di massima difficoltà, così ho trovato una persona che non vedo, ma che sono sicura mi vede e mi crede".

Un'ultima domanda: perché scrive?

"Per una forma di sensibilizzazione: mostrare come si vive in un altro mondo per far capire che, alla fine, siamo tutti esseri umani. Ogni persona che arriva qua, in Italia, ha la sua storia e, se noi non la conosciamo, non la possiamo giudicare". 

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