Nel 1876, un filosofo, Charles Renouvier, sul modello del termine utopia, ovvero non luogo, nessun luogo, luogo che non esiste, coniò la parola ucronìa, ovvero ciò che nel corso del tempo non è avvenuto, ma sarebbe potuto essere: per esempio, cosa sarebbe successo se nel 490 a. C. i Greci fossero stati sconfitti a Maratona? E se Alessandro il Grande non fosse morto nel 323 a. C.? Oppure se Annibale dopo la battaglia di Canne avesse attaccato Roma? E se Carlo Martello nel 732 non avesse sconfitto gli Arabi a Poitiers, dove sarebbero oggi le radici cristiane dell’Europa? E cosa sarebbe stata la storia europea se nel 1588 l’Invincibile Armada avesse conquistato l’Inghilterra? Come sarebbero oggi l’Europa e il mondo se le forze dell’Asse avessero vinto la II Guerra mondiale? Lo raccontano, mirabilmente, Philip Dick ne La svastica sul sole, 1962, e Robert Harris in Fatherland, 1992. Un gioco, certo. Una sorta di war-game che viene usato, dicono con qualche buon risultato didattico, nelle facoltà di storia anglosassoni.
Esistono pagine ucroniche nella letteratura italiana e quali le migliori? A parere di chi scrive quelle del quinto e ultimo romanzo di Luciano Bianciardi (1922-1971), Aprire il fuoco, 1969, in cui l’amato Risorgimento in camicia rossa dello scrittore grossetano si mescola con le utopie libertarie figlie del ’68: l’autore sposta, infatti, in avanti nel tempo di oltre cento anni, nel 1959, un evento strategico nel nostro processo di unificazione nazionale, le Cinque giornate di Milano che si svolgono in un’Italia immaginata ancora sotto la dominazione austriaca. Un anonimo io narrante procede a spiegare al Lettore i motivi della propria condizione di esule costretto, di tanto in tanto, a rientrare semiclandestinamente nella città che lo vide protagonista appassionato di quella importante vicenda rivoluzionaria. L’ucronia distopica di un Regio Imperial Governo austriaco immodificabile nel tempo e protrattosi ben oltre la prima metà del Novecento è alleggerita da un’ironia ora lieve, ora amara, ora sconfinante nel sarcasmo, spesso in una feroce autoironia. Favorita, e non poco, dalla inusuale invenzione storica che permette di mescolare tempi e soprattutto linguaggi diversi che fondono insieme stili, lingue, registri, codici e sottocodici. Se, intrecciando sapientemente piani temporali diversi, personaggi della storia e dell’attualità, persone e fatti lontani e vicini, Bianciardi realizza pagine di originali e gustosi effetti comico-umoristici capaci di suscitare nel Lettore il sorriso e anche qualcosa di più, pure Aprire il fuoco rimane l’opera sua più dolente e disperata: in essa lo scrittore toscano sembra aver ormai definitivamente introiettate le categorie della sconfitta e dell’esilio, ormai assurte a sua dimensione esistenziale.
Certo, l’Autore non può non risentire della temperie politico-culturale propria del periodo, ma ai generosi entusiasmi e alle ingenue speranza dei giovani sessantottardi, Bianciardi non può che contrapporre il proprio amaro disincanto: “La rivoluzione, se vuol resistere, deve diventare rivoluzione. Se diventa governo è già fallita. Se chiama i cittadini alle urne perché eleggano i loro capi, addio. Non è la prima volta che succede nella storia del mondo, e neanche sarà l’ultima: dovunque la rivoluzione ha cessato di essere permanente, là e ritornata la tirannia.” E questa è solo una delle tante sconsolate considerazioni che percorrono la fantastoria delle gloriose giornate dell’immaginaria insurrezione milanese del 1959… Un messaggio negativo, rassegnato e perdente quello del romanziere maremmano? Forse. Ricordiamoci, però, che sono proprio gli sconfitti, gli oppressi, gli umiliati di ogni tempo e paese quelli che lasciano nel mondo graffi abrasivi che non possono essere cancellati dalla memoria degli uomini.