La cronaca nera ci ha restituito, ancora una volta, un’immagine straziante e spiazzante: tre ragazzi uccisi in una piazza di Monreale, in una dinamica che ci lascia sgomenti per la sua assurdità e brutalità. La risposta collettiva — indignazione, dolore, sgomento — è un riflesso naturale. Ma da psicologa, sento il bisogno di andare oltre la reazione emotiva. Di chiederci: perché? Cosa accade nella mente e nel cuore di ragazzi così giovani da arrivare a commettere, o subire, un atto tanto estremo?
La violenza non nasce dal nulla. È quasi sempre il punto di arrivo di un vuoto: affettivo, educativo, relazionale. È figlia dell’abbandono, dell’assenza di senso, della perdita di limiti chiari, ma anche di modelli solidi. Viviamo in una società dove il confronto è spesso sostituito dallo scontro, dove la rabbia ha imparato a urlare, ma non a parlare. Dove i codici affettivi e morali si sono frantumati in mille micro-narrazioni, spesso contraddittorie, che confondono i ragazzi più che orientarli.
Nell’adolescenza, la rabbia è una forza naturale, perfino necessaria: serve a differenziarsi, a cercare se stessi, a costruire confini. Ma se non è accolta, ascoltata, trasformata, diventa distruttiva. Non esiste un ragazzo violento: esistono ragazzi che non hanno imparato altri linguaggi per esprimere il dolore, la frustrazione, la paura. La cronaca di Monreale, allora, ci obbliga a guardare più a fondo.
Il problema non è solo sociale, è educativo e culturale. La scuola fatica a essere presidio di senso, le famiglie sono spesso lasciate sole, e l’universo digitale — dove la violenza è spettacolarizzata e il dolore è cliccabile — occupa spazi che dovrebbero essere relazionali, autentici, corporei. Il bisogno di appartenenza, cruciale nell’adolescenza, trova risposta in gruppi dove la forza vale più del rispetto, e dove l’identità si costruisce contro, non insieme.
Come terapeuta, credo che ogni episodio di violenza sia un fallimento corale. E come cittadina, credo che la risposta debba essere collettiva. Serve un patto educativo nuovo, che ricostruisca la fiducia tra adulti e giovani. Serve una società che non si limiti a punire, ma che sappia prevenire, accompagnare, ascoltare. Che investa seriamente nell’educazione emotiva, nella promozione della salute mentale e nella costruzione di comunità vere.
Dietro ogni gesto violento c’è un grido non ascoltato. Monreale è un grido che ci riguarda tutti. Il dolore non deve diventare abitudine, e la rabbia non deve diventare destino.