Anno XI 
Martedì 26 Novembre 2024
- GIORNALE NON VACCINATO
claudio
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Scritto da Redazione
Cronaca
03 Maggio 2020

Visite: 26

Si chiama Serena Simonetti la giovane infermiera di origini lucchesi che da circa due anni lavora in rianimazione e terapia intensiva all'ospedale di San Valentino a Montebelluna provincia di Treviso.

Recentemente tornata a Lucca nel rispetto delle norme vigenti, ci racconta come ha vissuto in prima linea il suo lavoro ai tempi del Coronavirus: "In questi due mesi il mio reparto si è trasformato in reparto Covid-19, quindi tutti i pazienti che abbiamo accolto erano stati contagiati dal virus" afferma.

"Sin da subito sono state adottate tutte le precauzioni necessarie in materia di DPI - spiega prima di entrare nel dettaglio e descrivere meglio l'esperienza in ospedale - Consideriamo che la terapia intensiva non è come gli altri reparti suddivisa in stanze, ma è caratterizzata da un open space per cui ci vestiamo a inizio turno, dopo il passaggio di consegne, e ci svestiamo a fine turno".

Quante ore ha lavorato la mattina? Alla domanda risponde sette e continua il racconto: "Indossavamo tre paia di guanti, occhiali protettivi, visiera, copriscarpe, tuta impermeabile e maschera dotata di filtro".

Dopo circa 2-3 turni le sue mani erano cotte dal calore e il suo viso rovinato da tutti quei presidi. "Ma niente di tutto questo mi ha scoraggiata dal prestare servizio in un momento di emergenza come questo perché ho sempre cercato di pensare che le persone a cui prestavo servizio stavano soffrendo molto più di me. Un infermiere deve essere pronto, soprattutto, in un momento come questo".

Qual è stato il primo pensiero che le è venuto in mente mentre era in prima linea a salvare vite?

"In tutto ciò il mio pensiero più frequente è stato quello di non poter vivere e condividere questa brutta esperienza con la mia famiglia e il mio compagno. Vivere a 300 km di distanza è stato sicuramente difficile".

Ogni volta che entrava al lavoro Serena pensava ai parenti dei pazienti ricoverati che non potevano vedere i propri cari senza sapere se avrebbero avuto la possibilità di riabbracciarli. "La nostra è una rianimazione aperta, il che vuol dire che sono consentite le visite ai familiari 24 ore su 24, ovviamente in questo caso l'ingresso ai parenti era vietato e l'unico modo per avere notizia di chi era ricoverato era aspettare una chiamata dal reparto" prosegue pensando ai momenti vissuti a Montebelluna.

Serena ha sempre immaginato la moglie, i mariti o le figlie che a casa invece di attendere il bollettino delle 18 della Protezione Civile, aspettavano quella chiamata che poteva risollevarli o portare brutte notizie.

"In genere i pazienti da noi sono tutti intubati e sedati, per cui non coscienti. Una volta risvegliati erano in grado di respirare autonomamente e  dopo circa 15-20 giorni abbiamo iniziato con le videochiamate via Skype. Questo è stato per me il momento più emozionante. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza l'aiuto e il supporto dei miei colleghi".

Ad ogni turno si sono incoraggiati, spalleggiati e ognuno di loro ha aiutato l'altro nei momenti di difficoltà. La giovane infermiera sottolinea di aver trovato una "grande famiglia" che in questo periodo cosi delicato ha cercato di sostituire la sua. E a proposito di famiglia ogni sera Serena - quando possibile - chiama i suoi genitori per rendere tutto questo più normale. Ora è tornata a Lucca per riposarsi qualche settimana e soprattutto per trascorrere un po' di tempo con la famiglia. Si augura che tutti possano uscire da questa esperienza più consapevoli di prima e spera di poter continuare la sua professione nella sua città, ovvero Lucca. 

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