Nello scrigno dei tesori regalati mezzo millennio or sono dal Nuovo Mondo al Vecchio, insieme alla patata, al pomodoro, al mais, al tabacco, all’albero della china e a quello della gomma, non va dimenticato il fagiolo. Dono americano al contrasto della fame degli Europei, dopo che l’imperatore Carlo V ne fece dono al papa Medici Clemente VII, il fagiolo, Phaseolus vulgaris, conobbe una sua progressiva e inarrestabile affermazione sulle tavole degli Italiani, soprattutto quelli delle classi meno abbienti. A dirla tutta non è che Greci, Romani e Medioevo non conoscessero questa leguminosa. originaria dell’Africa e dell’Asia, ma non ne stimavano granché le proprietà nutritive. La buccia dura e una resa piuttosto bassa allontanavano i consumatori e i coltivatori e così, il phàselos, il piccolo fagiolo greco “dall’occhio”, per secoli, sui deschi antichi riscosse solo un limitato apprezzamento che si ingigantì progressivamente dal momento in cui fece la sua apparizione il “parente americano”, più grasso e morbido, più tenero e pastoso. Coltura tropicale trapiantata felicemente nelle regioni temperate d’Europa, il fagiolo, la “carne dei poveri”, contribuì potentemente a salvare dall’inedia e dalle sue conseguenze generazioni e generazioni di Europei poveri: ne testimonia la veloce diffusione un celebre dipinto d’impianto naturalistico, quello di Annibale Carracci (Bologna, 1560-Roma, 1609), Il mangiatore di fagioli (1584/5). Forse - la butto lì in attesa di essere smentito - proprio a quest’opera meritoria si rifanno certi modi di dire come “cadere, capitare, venire a fagiolo” per indicare il momento adatto per un’azione comunque percepita come positiva.
I miei fagioli preferiti? Quelli cucinati “all’uccelletto”, così chiamati perché preparati e conditi con gli aromi tradizionalmente impiegati per preparare l’arrosto di uccelletti, aromatizzati con salvia e, secondo una scuola gastronomica non accettata da tutti, aglio. Ma, in proposito, utilizziamo le parole di Pellegrino Artusi e mezza pagina del suo popolarissimo best seller del 1893, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, libro scritto in uno splendido italiano e patrimonio di tutte le famiglie del Bel Paese appena al di sopra della soglia dell’alfabetizzazione.
384. Fagiuoli a guisa d’uccellini
Nelle trattorie di Firenze ho sentito chiamare fagiuoli all’uccelletto i fagiuoli sgranati e cucinati così:
Cuoceteli prima nell’acqua e levateli asciutti. Mettete un tegame al fuoco con l’olio in proporzione e diverse foglie di salvia; quando l’olio grilletta forte buttate giù i fagiuoli e conditeli con sale e pepe. Fateli soffriggere tanto che tirino l’unto e di quando in quando scuotete il vaso per mescolarli; poi versate sui medesimi un poco di sugo semplice di pomodoro e allorché questo si sarà incorporato, levateli. Anche i fagiuoli secchi di buccia fine possono servire al caso dopo lessati.
Questi fagiuoli si prestano molto bene per contorno al lesso, se non si vogliono mangiare da soli. D’altra parte, qualche anno prima anche Niccolò Tommaseo, patriota e illustre letterato, (Sebenico, 1802 – Firenze, 1874) nel suo Dizionario della lingua italiana (in collaborazione con B. Bellini, 1858 – 1879) aveva notato che ”…ai Fiorentini piacciono molto i fagiuoli”.
Poi, per non farci mancare nulla, un bocconcino, tanto per restare in tema, dedicato ai cinefili. La scena, indimenticabile, dell'abbuffata di fagioli all’uccelletto di Terence Hill in Lo chiamavano Trinità, 1970, tra le pellicole più famose del filone western all'italiana, che sancì il passaggio da “spaghetti western” a “western fagioli”. E il nostro immaginario non fu più lo stesso.