Se Manolo Pieroni, 40 anni, di Segromigno in Monte, avesse letto la notizia apparsa alcuni giorni fa sulla Gazzetta di Lucca inerente la condanna a due anni per spaccio di eroina e cocaina inflitta a un tunisino, con pena sospesa e invito, nemmeno troppo insistente, a lasciare il paese, sicuramente si sarebbe messo a ridere. Lui che, infatti, nel luglio 2011, fu fermato all'aeroporto di Cali, in Colombia, e arrestato perché dentro la sua valigia gli trovarono sette chili di cocaina messi lì chissà dove, chissà da chi e chissà perché. Da quel giorno ebbe inizio un vero e proprio incubo finito solamente pochi mesi fa e dopo dieci anni o quasi di carcere in una prigione colombiana nemmeno lontanamente paragonabile a quelle che abbiamo, tanto vituperate, nel nostro disgraziato stivale.
La storia che andiamo a raccontare non è soltanto il racconto di una profonda ingiustizia avvenuta in un Paese dove la giustizia non si sa bene nemmeno dove stia di casa e ammesso che esista. E' anche la storia di una redenzione spirituale avvenuta quando, ormai, tutto sembrava essersi perso e la vita non avere più senso. Ed è anche la storia d'amore di due persone, un uomo e una donna, che per un misterioso intreccio del destino ha portato a innamorarsi e a sfidare la cruda realtà di un mondo al di fuori del mondo che siamo abituati a considerare e vivere.
Qualcuno, tra voi lettori, potrà manifestare dei dubbi, qualcun altro incredulità, qualcun altro ancora scetticismo, ma è indubbio che in tutta questa storia c'è un minimo comune denominatore rappresentato dalla fede ritrovata e capace, da sola, di accorrere in aiuto di chi, a quella fede, non aveva mai pensato di appellarsi per non togliersi la vita.
Questa vicenda che meriterebbe un libro per raccontarla tutta e compiutamente, prende avvio poco più di una decina di anni fa quando Manolo Pieroni si accorge che a Lucca la sua vita scorre troppo lentamente e priva di interesse per continuare a viverla senza sentirsi privo di stimoli. Lavorava nel settore calzaturiero come magazziniere, ma in lui c'era qualcosa che spingeva a cambiare. Così, insieme ad alcuni amici che già si trovavano in Colombia, decide di aprire un ristorante a Pereira.
Mi attirava - racconta Manolo - l'idea di cominciare qualcosa di nuovo, qui non c'erano possibilità, laggiù con poco avrei potuto aprire un locale. Così, finalmente, apriamo una taverna che si chiamava Las Palmitas e vendeva liquori e birre. Visto che andava abbastanza bene, stavamo cercando di aprirne un'altra. Eravamo nel 2011. Improvvisamente mio padre si sentì male. A quel punto dovetti per forza pensare a tornare in Italia. Ero partito da pochi mesi, ma non potevo restare là. Così acquistai un biglietto aereo Cali-Madrid. All'aeroporto passai regolarmente il check-in all'imbarco, ma durante il controllo dei bagagli venne fuori che dentro la valigia erano nascosti sette chili di cocaina. Così mi bloccano e mi arrestano. Mi prese un accidente.
Niente da fare. Ogni tentativo di spiegarsi, di far comprendere alla polizia che si trattava di un malinteso e che anche il lucchetto che chiudeva la valigia non era quello originale, non servì a niente. Manolo Pieroni da Segromigno fu arrestato e trasferito senza nemmeno particolari complimenti al carcere di Palmira l'8 luglio 2011, una data che non dimenticherà mai per tutto il resto della propria vita.
La prima cosa che feci - prosegue Manolo - fu quella di contattare un avvocato. Non parlavo una parola di spagnolo e non era facile farsi capire dentro la prigione che era una vera e propria giungla. Ero frustrato, venivo costantemente umiliato e nessuno che mi voleva ascoltare. Dopo tre mesi ebbi il primo contatto con l'ambasciata italiana a Bogotà, ma non ottenni niente di particolare se non il solito, generico interessamento. Dormivo in terra. Le celle erano aperte e senza sbarre. Nel braccio pochi metri per muoversi visto che su 70 persone ce ne erano, in media, oltre 100. Quello che accadeva a chi arrivava in carcere era semplice. Non c'erano la polizia o le guardie. Venivi messo nel braccio dopodiché sopravvivere era una questione personale. Un italiano in carcere da due anni per droga mi accompagnò dal capo, un colombiano, giovane, che nella prigione faceva il bello e il cattivo tempo. Funziona così. Se vuoi vivere devi renderti utile e accettato a chi comanda. Lui era uno dei capi di una delle bande criminali della zona.
La vita di Manolo perde ogni valore e, per lui, ma non soltanto, ogni interesse. Si tratta di resistere ogni giorno a una violenza che non conosce confini. Accoltellamenti, pestaggi, perfino omicidi. C'è di tutto in carcere e di tutto arriva e può arrivare. Basta pagare. Le guardie carcerarie? Come se non ci fossero e non vogliono casini. Inutile aggiungere che per sopravvivere devi farti rispettare e se non lo fai, è la fine: diventi il bersaglio di chiunque vuole strapparti qualcosa di quel poco che hai e che ricevi.
Non creare problemi e non fare debiti. Queste la parole del boss - rammenta Manolo Pieroni - Girano i pesos. Chi li aveva poteva comprarsi di tutto. I problemi lì si risolvono o con i soldi o con il sangue. Il primo mese non credevo di essere dov'ero. Mi alzavo la mattina, lasciavo gli occhi chiusi e pensavo ora mi sveglio ed è tutto un sogno. Aspettavo dieci minuti poi li riaprivo e mi accorgevo che, invece, era tutto vero. Le estorsioni erano all'ordine del giorno. Ti vogliono abusare, rubare, portare via tutto, ti minacciano, il coltello più piccolo che ho visto era lungo 30 centimetri. Ho visto machete, pistole, granate dentro il carcere. Dopo i primi giorni di adattamento, arriva il momento in cui devi prendere una decisione: o ti ribelli o ti fai continuare a mettere i pedi in testa ed è la fine. E' una escalation e la sua crescita dipende da quanto tu permetti loro di farti. Cominciarono a portarmi via le cose personali, i vestiti e altri oggetti, quei pochi che possedevo. Così, un giorno, mi sono stancato. C'è stata una lite. Ho menato quello che mi tormentava e da quel momento fui visto sotto un'altra luce. Ho dovuto fare a botte altre volte, sono stati colpito due volte con un coltello da altrettanti detenuti, ma non sono mai state ferite gravi. La prima volta accadde durante una ribellione in carcere, nel 2103. Volevano approfittare per eliminarmi così arrivarono due persone armate di coltello per aggredirmi. Ero in cella che aspettavo finisse tutto. Grazie a Dio ce la feci a difendermi. In quel carcere c'erano cinque bracci e c'era una cupola che gestiva il tutto composta da un capo e da quelli che lavorano per lui. Il carcere è come un orologio. Tutto funziona regolarmente.
Alla fine e finalmente, si fa per dire, arrivò il momento del tanto atteso processo. C'era ottimismo, anche l'avvocato sembrava essere dello stesso avviso e aveva sempre promesso che lo avrebbe fatto uscire. Poi, la sentenza. Devastante. 21 anni di carcere, roba capace di abbattere chiunque. Il mondo che ti crolla addosso all'improvviso. Manolo aveva fatto qualche indagine a titolo personale e aveva scoperto che quello che era capitato a lui era accaduto anche altre volte. Già in passato, infatti, bande criminali erano solite caricare cocaina in aeroporto nei bagagli di ignari passeggeri stranieri, la chiamano mula involontaria. E' una sorta di accordo che prevede, da un lato, far scoprire alla polizia ogni tanto qualche grosso carico di droga mentre altrove si chiude un occhio per trasporti ben più consistenti. Peraltro la valigia di Manolo era sì la stessa che aveva al momento dell'imbarco, ma diverso, come abbiamo già detto, era il lucchetto e mancavano effetti personali.
Inutile. In Colombia non esiste garantismo e le carceri non sono hotel nemmeno a due stelle o anche meno. 21 anni e quattro mesi. Una eternità: Uscii dall'aula devastato psicologicamente pensando che ero solo come un cane senza che nessuno mi aiutasse e non ne sarei mai più uscito. Ero in un carcere di massima sicurezza. Non ce l'avrei mai potuta fare. Cominciai a tentare di capire cosa mi restava da fare. Chiesi aiuto a mia sorella Deborah affinché scovasse qualcosa. C'era la possibilità del rimpatrio così da poter scontare la pena in Italia. Mio padre stava male e se uno dei genitori era in gravi condizioni di salute il detenuto aveva il diritto a ritornare a casa. Feci tutti i documenti e la Colombia li approvò con mia somma gioia, ma arrivò la mazzata proprio da chi non te lo saresti mai aspettato: l'Italia negò la possibilità perché non c'era un accordo bilaterale con la Colombia per cui restai dov'ero. Proprio il mio paese mi aveva abbandonato e questo non lo dimenticherò mai. Solo nel 2016 l'Italia firmò l'accordo che entrò in vigore soltanto un anno fa, nel 2020, perché il Parlamento italiano non lo aveva mai ratificato. Ci sono voluti quattro anni.
La situazione diventa sempre più disperata. Manolo Pieroni non sa a quale santo votarsi. In carcere lavorava dando da mangiare ai detenuti e, inoltre, era riuscito a ingraziarsi le persone giuste che comandavano e che lo vedevano di buon occhio: era affidabile, non creava casini, non si ubriacava, lavorava sodo. Ciònonostante il solo pensiero di dover trascorrere ancora così tanti anni dietro le sbarre in un paese straniero stavano minando seriamente la salute mentale di questo giovane lucchese: Cominciai, allora, un lavoro dentro di me che mi condusse ad una trasformazione interiore. In quel momento, dopo tante cose patite e tante delusioni, avevo compreso che da solo non ce la potevo fare. Quindi, una notte, io che ero sempre stato ateo, preso dallo sconforto e dal pianto, pregai questo dio che non conoscevo, "Se esisti aiutami perché da solo non ce la faccio, mandami una person che possa aiutarmi a sopportare questa situazione". Avevo un cellulare in carcere. Come era possibile? Perché pagando si poteva avere tutto. E 15 giorni dopo squillò il telefono.
(1 - continua)