Per come si vanno sviluppando gli eventi bellici in Medio Oriente, con la progressiva espansione del conflitto che, dal Libano, potrebbe ben presto allargarsi fino all'Iran, è possibile prevedere che si stia andando verso una sorta di "resa dei conti". Un'ordalia finale tra i regimi musulmani di credo sciita più violenti, quelli che si affidano al terrorismo antisemita camuffato da lotta al sionismo ed allo Stato ebraico. Difficile, quindi, attivare, proficuamente, i canali diplomatici, inviare in loco i rappresentanti politici o diplomatici degli Stati democratici. Questi ultimi, al contrario dei loro interlocutori, rappresentano forme di nazioni libere entro le quali a decidere sono gli eletti e non i predestinati, i capo banda oppure i leader religiosi. Ecco perché il dialogo è sostanzialmente tra sordi, con la conseguenza che, dopo più di un anno di tentativi diplomatici , ancora assistiamo ad un nulla di fatto, che cessino i massacri di migliaia di civili. Questo ostacola non solo un divenire di pace in quella martoriata regione, ma crea ulteriori presupposti che il conflitto si espanda ulteriormente. Sono questi gli elementi essenziali con i quali fare i conti in quell'angolo di mondo. E tra i più prossimi a poter esserne contagiati la Turchia che, pure non essendo ufficialmente intervenuta sul piano militare, fa sentire sempre più forte la propria voce filo islamista ed anti israeliana. Con una popolazione di circa novanta milioni di abitanti, un esercito tra i più potenti ed attrezzati del mondo, istituzioni parlamentari e libere elezioni per eleggere il Capo dello Stato nelle cui mani si raggruppano i maggiori poteri decisionali, il paese della mezzaluna rossa, in quanto componente della Nato, è anche sede di nevralgiche basi americane, come quella aerea di Incirlik. Un Stato chiave in quella regione, insomma, con una posizione strategica, a cavallo di due Continenti: l'Asia da una parte, l'Europa dall'altra, di cui ha finora rappresentato l'estrema propaggine, incuneata nel Medio Oriente confinante con l'Iran degli Ayatollah. La Turchia si è sempre rivelata decisiva per le sorti del Vecchio Continente allorquando, al suo interno, è prevalsa la linea laica ed aconfessionale, volta a preferire e praticare costumanze e stili di vita occidentali a quelli della sharia islamica, fungendo, in tal modo, da primo baluardo contro l'avanzata del massimalismo musulmano. Se però, un giorno, anche ad Ankara dovesse prevalere il connotato religioso con la conseguente progressiva erosione delle istituzioni politiche di stampo occidentale, ecco che l’Europa si ritroverebbe con un...coltello puntato alla gola!! In sintesi, la guerra si sposterebbe direttamente a due passi dalle nostre case, peraltro corroborata dagli antichi e mai sopiti odi tra Greci e Turchi, in perenne competizione tra loro sulla nazionalità di isole che sono elleniche ma più adiacenti, territorialmente, alla Turchia. Una situazione già vissuta nel 1974, con il golpe militare dell'organizzazione greco-cipriota "EOKA-B"che scatenò, per reazione, un intervento militare turco, alla spartizione dell'isola in due zone: una in mano ai greco-ciprioti, l'altra, gestita invece direttamente dai turco-ciprioti. Una ruggine mai sopita. Guardare pertanto ai fatti politici di quel paese diventa essenziale per decifrare la possibile espansione degli eventi bellici medio orientali verso le vicine sponde del Vecchio Continente. La Turchia fin dalla nascita, come Stato repubblicano, dopo la disfatta della prima guerra mondiale e la conseguente caduta dell'impero ottomano, fu governata da un filo occidentale come Mustafa Kemal, detto Atatürk (padre dei turchi). Quest'ultimo gettò le basi per l'edificazione di una nazione laica, da un punto di vista industriale, culturale e dei costumi, cancellando la vecchia impronta islamista degli antichi pascià. Oggi la Turchia è retta da un "uomo forte" come Tayyip Erdoğan, autodefinitosi un "democratico conservatore". L'attuala presidente ha però promosso politiche che hanno portato ad un progressivo ritorno in auge dell'Islam, cancellando buona parte delle riforme di Ataturk. Pur avendo vinto di stretta misura le ultime elezioni presidenziali, contro un candidato liberale, il leader di Ankara ha demolito molto presidi delle società democratiche, limitando la libertà di stampa, imponendo ferrei controlli di polizia e favorendo un ritorno alla stretta osservanza dei vecchi canoni religiosi. Pur avendo da tempo chiesto l'ingresso nella Unione Europea, il leader del "Partito della Giustizia e dello Sviluppo" non ha superato la preliminare verifica dei requisiti politici e sociali richiesti da Bruxelles. Il che significa che con Erdoğan al timone, la Turchia sta via via assumendo uno status di paese "non allineato" e che quindi tende ad avere le mani libere. Un paese che tra l'altro se la intende con la Russia di Putin e si propone come mediatore nel conflitto in Ucraina. Quel che più allarma però è la continua deplorazione della politica israeliana, le accuse e le aspre critiche che il premier turco rivolge a Benjamin Netanyahu con il quale però ha molto in comune per atteggiamenti crudeli e repressivi nei confronti della etnia Armena. Tel Aviv corre il rischio di doversela vedere anche con un nuovo, potente, potenziale avversario. Altra benzina sul fuoco per una pace sempre più debole e lontana.