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Scritto da aldo grandi
Ce n'è anche per Cecco a cena
24 Gennaio 2024

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Non ci volevamo credere quando, questa mattina, ci hanno avvisato che Stefano Michelini, lo psichiatra lucchese cresciuto a Sant'Alessio, maturato professionalmente alla corte di Giovanni Battista Cassano, il principe degli psichiatri, era morto. Lui, la persona che più di una volta ci aveva aiutato e con cui avevamo collaborato, scherzato, dialogato, commentato, riso e anche, perché no?, sofferto, non c'era più, trovato privo di vita ieri mattina nella sua casa non si sa bene da chi. Aveva 64 anni, lucchese nel profondo anche se poteva dirsi a tutti gli effetti un cittadino del mondo che, ovunque era andato, aveva seminato amicizie e rapporti umani tutt'altro che superficiali. Non era un santo e noi non ci apprestiamo a ricordarlo come tale. Non solo perché, effettivamente, non amava sentirsi tale, non soltanto perché non avremmo l'autorità per designarlo, ma, soprattutto, perché era l'antitesi della persona credente in una autorità costituita e superiore qualunque essa fosse e a qualunque latitudine si trovasse. Credeva nella razionalità, nella scienza anzi, nella neuroscienza, sapeva benissimo che l'aldilà è un privilegio riservato a chi ha fede e non, ad esempio, a chi nutre il dubbio e si attiene all'evidenza. E lui masticava raziocinio, empirismo, concretezza, formule chimiche che assemblavano quei farmaci ai quali era legato non da una dipendenza fisica o emotiva, bensì dalla consapevolezza che l'essere umano e la sua psiche sono una endiadi e che entrambi siano composti da sostanze fisiologiche e chimiche il cui equilibrio è fondamentale nella cura dei disturbi della mente umana, dai più gravi a quelli generati dallo stress oggi, a tutti gli effetti, il male del millennio. Noi lo abbiamo incontrato per la prima volta tanti anni fa, dovevamo essere nel gennaio del 1999. 

Ci eravamo separati da poco, con molta difficoltà e anche sofferenza per via della presenza di un figlio che, come tutti i figli, non vorrebbe mai vivere una esperienza simile. Era il periodo delle festività natalizie, il peggiore per chi si trova in quella condizione con i sensi di colpa che ti mangiano il cuore e ti devastano l'anima. Prima dello scadere dell'anno, al di là della sensazione di vuoto e paura, del dolore per dover stare lontani da chi si ama più di ogni altra cosa al mondo, l'istinto di conservazione ci aveva, comunque, preservato, ma, impossibile a credersi, il primo giorno dell'anno faticammo a prendere sonno e arrivammo a contare, inutilmente, alcune centinaia di pecore. Il risveglio fu traumatico, la sensazione di terrore e di inutilità, spaventose. Non ci sentivamo più quelli che eravamo stati fino alla sera prima e se anche avremmo voluto correre, nei giorni seguenti, a malapena, riuscivamo, metaforicamente, a camminare.  Dov'erano finiti il nostro entusiasmo, il nostro iperattivismo, la nostra energia preponderante e prepotente? Scomparsi nel nulla. 

Stavamo preparando la biografia di Giangiacomo Feltrinelli per Baldini&Castoldi, un lavoro monumentale, osteggiati apertamente dalla famiglia Feltrinelli, da Inge e Carlo che, saputo da noi della nostra intenzione, avevano deciso, ma lo scoprimmo dopo, di seguirci passo dopo passo e, nel frattempo, scrivere anche loro un libro sul congiunto morto il 14 marzo 1972 a Segrate. In più il lavoro alla redazione lucchese de La Nazione che era stressante e la concorrenza con Il Tirreno devastante sotto tutti i punti di vista. Servivano dosi elevatissime di adrenalina. Improvvisamente non riuscimmo più a carburare, tutto ci risultava difficile, a tratti anche impossibile, persa ogni fiducia in se stessi, smarrita ogni volontà di andare avanti, un buco nero dal quale non riuscivamo a capire come uscire.

Fu la nostra compagna di allora, anche lei cresciuta a S. Alessio, a segnalarci il nome di un giovane medico psichiatra lucchese che aveva contribuito a far tornare a sorridere una comune amica. Ci andammo, ma senza troppa convinzione. Lei ha il motore di una Ferrari, ma, attualmente, la carrozzeria di una Fiat 500. Questa frase la mandammo a memoria. Depressione? Disse di no, ma abbiamo sempre avuto dei dubbi. Del resto, il male oscuro descritto da Giuseppe Berto nel suo libro più famoso, era ed è abbastanza chiaro in materia. Ci diede una cura, progressiva, garantendoci, di fronte alle nostre debolezze, alle nostre perplessità, alle nostre paure di non poter più tornare come eravamo, che tempo quattro settimane o poco più, saremmo diventati ancora più entusiasti, energici e convinti di prima. Non che, aggiunse, i problemi che avevamo si sarebbero automaticamente risolti, ma la carrozzeria si sarebbe irrobustita e avrebbe permesso di affrontarli in maniera più sicura.

Ringraziammo e salutammo dandoci appuntamento a chissà quando. Siamo sempre stati degli ottimi esecutori di direttive, almeno quando siamo convinti della loro utilità, e, così, anche quella volta procedemmo spediti. Passarono, effettivamente, alcune settimane e, soltanto grazie all'amico Jacopo Di Bugno, aspirante a quel tempo, giornalista e compagno di calcio nella stessa squadra degli Scoop, fu possibile, per lui, recarsi a Milano a fare alcune ricerche bibliografiche che noi, conciati in quel modo, non saremmo stati in grado di fare. Al punto che anche il futuro del libro sembrava essere diventato incerto. 

Ebbe ragione Michelini. Dopo un mese e mezzo eravamo nuovamente tornati ai vecchi tempi, anzi, pure... peggio. Ci restituì la voglia di vivere che avevamo, momentaneamente, smarrito. Certo, forse, avremmo potuto anche aspettare mesi e risollevarci da soli, ma quanto ci sarebbe costato e non certo in termini di denaro? Da quel momento Stefano Michelini diventò, per noi, una persona cui dovevamo molto e con cui iniziammo un rapporto fatto di sincera amicizia e reciproca stima.

Da allora almeno altre due volte finimmo nel baratro di quella che, a tutti gli effetti, era una sorta di caduta libera provocata dalla vita e dall'elevatissimo livello di stress cui eravamo costantemente sottoposti a seguito di eventi esterni, lavoro, libri da scrivere, rapporti affettivi che si interrompevano dopo anni e, infine, anche una tragedia che più tragedia non si può. Ormai, però, conoscevamo Stefano e ci conoscevamo a sufficienza per sapere che, ad un certo punto, non c'era tanto da fasciarsi la testa, ma da rimettersi in gioco e, perché non ammetterlo?, ricorrere anche a qualche medicinale in grado di supportare e, magari, anche incrementare i livelli di serotonina che lo stress, qualunque esso sia, mina alla radice.  Ne siamo usciti ogni volta e anche grazie al fatto che, laggiù anzi, quaggiù, da qualche parte, Stefano Michelini c'era sempre pronto a rispondere su whatsapp anche mentre era in seduta. Per lui l'amicizia era tutto. O quasi. Non solo. Aiutò anche nonna Dory che, se adesso ha toccato, quasi, quota 99 anni restando abbastanza lucida, è anche grazie a lui.

Come potevamo non volergli bene?

Accettò di diventare presidente onorario della Gazzetta e ogni tanto ci scriveva. Lo perdemmo di vista quando si trasferì a Roma dove, ci disse, avrebbe potuto far seguire più facilmente e accuratamente il figlio più piccolo autistico. 

I suoi due figli erano, per lui, fonte di sofferenza. Per quello che avrebbe voluto fare per loro senza riuscire più di tanto, però, ma non per colpa sua, a modificare lo stato delle cose. Amava tutti e due fortissimamente. Era, sicuramente, in apprensione per entrambi, ma era una di quelle persone che non parlava molto di sé, mai si lamentava, mai imprecava, mai se la prendeva col fato. Affrontava la vita a muso duro come avrebbe detto Pierangelo Bertoli, aveva le sue passioni, le sue manie, le sue convinzioni. Era un ottimo professionista che, se avesse voluto, avrebbe tranquillamente potuto intraprendere la carriera universitaria. Abbiamo conosciuto molta gente che, grazie al suo intervento, è tornata ad avere fiducia nella vita e a sorridere e, credeteci, non è semplice riuscirci quando ti trovi nel buio senza una luce che ti illumini il cammino. Ebbene, per molti pazienti lucchesi lui è stato quella luce.

Nell'ambiente medico era criticato, talvolta, perché seguace di quella scuola cassaniana che fa ricorso troppo facilmente e frequentemente agli psicofarmaci per curare, eppure è anche grazie a questa scuola che psicologi e psicoterapeuti si sono convinti che, in determinate situazioni, proprio l'utilizzo dei medicinali è indispensabile per ricominciare a risalire.

Noi lo vogliamo ricordare così, sapendo che, da ieri e, per noi, da oggi quando lo abbiamo saputo, non c'è più. Non era un credente e pensava, senza timore di sbagliarsi, ma scientificamente, che la dignità e l'essenza dell'uomo stavano e stanno nella consapevolezza di esistere e, quindi, nel suo cervello fino a quando è vivo e cosciente. Dopo, c'è soltanto il nulla e niente di più.

Addio caro Stefano ti abbiamo voluto bene e sappiamo che ce ne volevi anche tu.

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