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Scritto da Marco Mastrilli
Cronaca
12 Novembre 2024

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La sinistra progressista si è intrappolata in una spirale di autocompiacimento inclusivo che, anziché unire, frammenta la società. Nel tentativo di rappresentare ogni singola identità, ha creato un mosaico di sottogruppi che si affretta a difendere, consolidando così il proprio ruolo di paladina degli esclusi. Il paradosso è lampante e cercando di includere tutti, divide la società in categorie sempre più specifiche, inventando per ciascuna un'etichetta e una causa da rivendicare. Un gioco semantico che, dietro l'apparenza di nobili ideali, nasconde probabilmente una strategia di autoconservazione politica.

Lo psicologo sociale Henri Tajfel, con la sua Teoria dell'Identità Sociale negli anni '70, ci ha insegnato che l'identità collettiva si basa su confini chiari e su un forte senso di appartenenza a gruppi coesi. Spingendo all'estremo questa spinta inclusiva, l'ortodossia progressista rischia di dissolvere la coesione sociale a favore di un'auto-segmentazione dilagante. In questo circolo vizioso, ogni nuovo gruppo emarginato diventa un tassello di un mosaico in continua espansione, facendo perdere di vista un'identità unitaria e condivisa. È evidente che più identità vengono definite, più ciascuna si percepisce come isolata, esclusa e bisognosa di tutela, alimentando una frammentazione che rende sempre più indispensabile la figura di un "Supereroe inclusore". Una strategia di marketing politico fin troppo palese: prima eri incluso, poi ti faccio sentire escluso, infine combatto per includerti di nuovo in cambio del tuo voto.

E mentre l'area progressista si affanna a disegnare un mondo fatto di differenze esaltate, qualcuno dall'altra parte ha capito che la maggioranza delle persone è affamata di qualcosa di molto più concreto: la giustizia sociale che garantisca la sopravvivenza. Donald Trump, più che un presidente, è diventato un catalizzatore per chi non si sente rappresentato da questo mondo frammentato, ipercorretto e sospeso in una dimensione che ricorda più un Paese delle Meraviglie che la realtà quotidiana. Trump incarna l'idea di un'identità forte, coesa, che parla di appartenenza concreta e valori radicati: un nutrimento prelibato per elettori che, invece di un catalogo infinito di etichette, desiderano ritrovare un senso di giustizia che risponda ai bisogni essenziali e non a ideali lontani.

Così, mentre Kamala Harris incassa la sconfitta e la sinistra americana etichetta tutto come una tragedia, la abituale schiera di figure note fa capolino nelle televisioni italiane con il solito copione conservato sotto naftalina da recitare tipo la posia di Natale. Ed ecco Rosy Bindi in prima serata, con quell'aria da custode di antiche saggezze, a sentenziare che "l'America non è un paese per donne". Ma il supponente messaggio sottinteso è che il popolo non ha capito il copione progressista, perché altrimenti avrebbe applaudito la vice di Biden, senza riserve. E con arrogante presunzione si afferma che la colpa è della gente che non comprende, non di un messaggio che non riesce a parlare alle reali preoccupazioni degli elettori.

Non possiamo dimenticare un precedente nostrano, emblema di come questa retorica sia spesso usata per coprire altre dinamiche: il Jobs Act del governo Renzi. Una riforma promossa come progresso sociale che, dietro un linguaggio accattivante, nascondeva in realtà un'escalation di precarietà. Dietro la parola "modernizzazione" si celava l'erosione delle tutele per i lavoratori, che si ritrovavano con contratti usa e getta, in una condizione di sempre maggiore incertezza. Ma allora, quando serviva, Landini e i suoi si limitavano a un brontolio sommesso. Nessuna manifestazione, nessuna protesta per chi vedeva la propria stabilità messa a rischio. Oggi, invece, li vediamo salire sul carro e inneggiare alla rivolta sociale, senza che sia chiaro il perché.

L'ironia della sorte vuole che proprio questa ideologia inclusiva e frammentante abbia dato vita a ciò che oggi chiamiamo cultura woke. Un modello iper-corretto che, anziché difendere davvero le minoranze, ne moltiplica l'isolamento e l'auto-percezione di esclusione, alimentando l'idea di una lotta continua e infinita. La sinistra insiste nel promuovere questo modello senza accorgersi che il mondo sta virando in tutt'altra direzione. La gente cerca identità forti, sicurezza, un ritorno alla concretezza. Non un'ideologia che sembra lontana e irreale, ma una rappresentazione tangibile dei propri bisogni, diritti e valori.

E così la visione progressista si sgretola, mentre i suoi simboli affondano nelle proprie contraddizioni col risultato che molti degli elettori del vecchio Biden invece hanno detto: "Bye-Bye DEM". Un planetario addio ironico a chi, smarrito nel proprio delirio inclusivo, ha preferito perdersi nel proprio linguaggio, incapace di ascoltare davvero chi avrebbe dovuto rappresentare. Trump, intanto, sorride, forte del suo ruolo di catalizzatore per un'identità che sembra avere radici più profonde di quanto il progressismo iper-corretto sia pronto ad ammettere.

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