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Scritto da Redazione
Cultura
08 Dicembre 2020

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Potrà sembrare strano, ma sul portale storico della camera dei deputati, tra le migliaia di nomi, c'è anche quello di Guido Pallotta. A dirla tutta, Guido Pallotta Della Torre Del Parco, che trattasi di appartenente ad una famiglia nobile marchigiana i cui discendenti tutt'ora risiedono in provincia di Macerata.  

Guido Pallotta è stato, per le giovani generazioni del regime fascista, una sorta di faro cui guardare in cerca di un orizzonte verso cui muovere i propri passi. I giovani e, in particolare, gli studenti lo amavano per via di quella sua capacità di non guardare in faccia nessuno, di fare le bucce ai gerarchi a caccia di prebende e cadreghini, per quel suo disprezzare apertamente la vita comoda tipicamente borghese per sostituirla con una vita in rivoluzione permanente, contro coloro i quali si frapponevano tra la quotidianità misera e, spesso, panciafichista del fascismo e la volontà di conquistare una più alta vetta ideale.

Pallotta nacque a Forlì il 1 gennaio 1902 e a soli 16 anni lasciò la famiglia e partì al seguito del comandante Gabriele D'Annunzio verso Fiume arrivando a far parte della guardia personale del vate. Morì il 9 dicembre 1940 ad Alam el Nibewa in Cirenaica durante la controffensiva inglese che ribaltò in pochi mesi la timida avanzata italiana. Le sue spoglie non furono mai trovate e riposano nelle sabbie libiche.

Perché questa premessa? Perché, soprattutto, questa commemorazione? 

Proprio l'altro giorno una telefonata da parte di Sofia Pallotta, figlia di un fratello di Guido, ci ha raggiunto, dopo alcuni anni di silenzio, per dirci che, ogni tanto spesso, prende tra le mani il nostro libro Il gerarca col sorriso edito da Mursia nel 2010, e questa volta ha voluto sentire come ce la passavamo. Bene, è stata anche l'occasione per comunicarle che, nel 2021, uscirà una nuova edizione della biografia dell'ex giornalista fascista per i caratteri di Rusconi Editore.

A dispetto della ex presidente della camera Laura Boldrini, noi non solo non abbiamo mai desiderato abbattere i simboli del passato, ma, al contrario, abbiamo sempre preferito e scelto di conoscerli per comprendere. E, nel caso del fascismo, abbiamo sempre ritenuto, fedeli al nostro maestro Ruggero Zangrandi, che fosse importante non tanto conoscere se gli italiani erano stati o meno fascisti - eccome se lo sono stati - ma perché così tanti poterono esserlo.

Ci eravamo già imbattuti nelle figure di Berto Ricci e di Niccolò Giani, gli altri due esponenti principali di un fascismo, per certi versi e allo stesso tempo, rivoluzionario e contrario ad ogni forma di opportunismo o compromesso. Il primo a seguito di alcune testimonianze di coetanei che lo avevano conosciuto, come, ad esempio, Fidia Gambetti o Romano Bilenchi e anche, invero, grazie alla biografia di Paolo Buchignani Un fascismo impossibile - L'eresia di Berto Ricci; il secondo per la nostra ricerca che dette origine al libro Gli eroi di Mussolini - Niccolò Giani e la scuola di mistica fascista

Quanto a Pallotta, però, non c'era verso di cavare un ragno dal buco. Non aveva lasciato figli e la moglie era già deceduta. Guido Pallotta ci aveva sempre incuriosito sin da quando, alla metà degli anni Ottanta, ci eravamo imbattuti nel libro di Marina Addis Saba Gioventù Italiana del Littorio - la stampa dei giovani nella guerra fascista. Ci era piaciuta la figura di questo fascista integerrimo che, alla guida della rivista Vent'anni, organo del Guf di Torino, menava fendenti a destra e a manca contro i profittatori del regime e contro tutti coloro che vedevano, nel fascismo, non una rivoluzione ideale, bensì l'opportunità di ricavarne vantaggi personali.

Non eravamo certamente imbevuti di retorica fascista e, inoltre, proprio per aver incontrato, in gioventù, decine di ex rappresentanti di quella generazione, eravamo vaccinati contro ogni nostalgia. Tuttavia individuavamo, in quelle esigenze e in quella voglia di ribellione rispetto al conformismo dilagante, una specie di linea anagrafica che collegava i giovani di ogni tempo, restii, nelle loro fila migliori, ad accettare passivamente il quieto vivere e le ipocrisie tipiche della società degli adulti e del potere costituito.

Del resto, se non ci sono dubbi su quale fosse la parte sbagliata, è altrettanto vero che, per quella parte ci sono stati decine di migliaia di ragazzi e non certo dei peggiori, che si sono fatti ammazzare sui fronti di mezza Europa e dell'Africa in nome e per conto di un uomo e di un regime che li ha condotti, scientemente, alla rovina.

Accadde, così, che un giorno ricevemmo una lettera a firma Sofia Pallotta la quale, oltre a dirci che era la nipote di Guido, ci spiegò che era rimasta colpita dal libro su Niccolò Giani dove aveva più volte trovato riferimenti alla figura dello zio. Per questo ci ringraziava, per averle restituito un pezzo di storia della sua famiglia.

A quel punto e così come avevamo fatto per Niccolò Giani di cui parleremo in altro articolo, ci venne in mente che anche Sofia Pallotta, forse, come era accaduto ai figli di Niccolò Giani, potesse custodire, chissà, un archivio 'segreto' mai consultato prima. Dovete sapere, infatti, che Guido Pallotta e Niccolò Giani sono stati, sono e saranno sempre, per gli storici, due personaggi importantissimi e rappresentativi di un certo tipo di fascismo che pagò in prima persona e con la propria pelle gli ideali e i principi cui faceva riferimento non solo nella teoria, ma, soprattutto, nella pratica. Ed è a causa di questo, purtroppo, esempio, che i giovani di cui sopra sono andati volontari a farsi ammazzare.

Cercammo nella lettera e nella busta un recapito, ma non c'era niente. Guardammo su Internet e sulle Pagine Bianche, ma niente ancora. Come avremmo potuto rintracciare Sofia Pallotta della quale avevamo solamente l'indirizzo? Avremmo dovuto recarci a Macerata, così, senza alcuna certezza? Ci venne in soccorso il mestiere di cronisti. Infatti, pensammo bene di chiamare i carabinieri della compagnia locale i quali, molto gentilmente, si prestarono a fare da ambasciatori recandosi presso la sua abitazione comunicandole il nostro desiderio di parlarle.

Fu così che, dopo un iniziale e comprensibile spavento dovuto all'arrivo di una pattuglia, Sofia Pallotta ci chiamò e non potemmo nascondere l'emozione nel chiederle se aveva, da qualche parte, una sorta di archivio dello zio deceduto in Africa Settentrionale. La sua risposta fu sì, che ce l'aveva ed era anche robusto oltre ad essere stato sempre custodito gelosamente perché, in particolare, nell'immediato dopoguerra e non solo, essere parenti di un gerarca fascista sia pure medaglia d'oro al valor militare, non era considerato particolarmente edificante.

Inutile descrivere la nostra gioia. Il nostro fiuto aveva ancora una volta visto giusto. Così, nei giorni successivi, contattammo il nostro mentore e, all'epoca, direttore editoriale della Bur Rizzoli Lorenzo Fazio - che avevamo avuto direttore della collana de Gli Struzzi di Einaudi - al quale proponemmo, come avevamo fatto per Giani, il libro. E lui, come sempre aveva fatto, sposò appieno l'idea.

Organizzammo, quindi, una trasferta  a Recanati, alla stazione ferroviaria, dove, ad attenderci, trovammo Sofia Pallotta con la sua vettura carica di scatoloni che trasbordammo sulla nostra vettura guidata da un amico che ci accompagnava in molte delle trasferte rossonere in giro per l'Italia.

Arrivammo a casa e, finalmente, con delicatezza e animati da uno spirito e da un entusiasmo irraggiungibili, aprimmo le scatole e cominciammo a consultare, sommariamente, il materiale. Così come per Giani, fu un'esperienza unica, ineguagliabile. Eravamo i primi che mettevamo le mani e gli occhi su così tanto materiale mai consultato da chicchessia. Ci imbattemmo nell'impresa di Fiume, con le lettere di D'Annunzio, i suoi proclami e i suoi volantini originali, le centinaia di lettere di Guido Pallotta ai genitori, un epistolario incredibile, racconti unici dell'impresa di Etiopia, copie introvabili del quotidiano fondato da Pallotta ad Addis Abeba all'indomani della sua conquista.  

Non guardavamo a queste cose con l'occhio di colui che prova nostalgia o ammirazione per un periodo storico che così tante tragedie ha causato al nostro paese, ma con lo sguardo appassionato dello storico che scopre qualcosa di inedito e che, grazie anche a questo, riesce a capire molto, molto più che da un libro di storia, ciò che il fascismo aveva rappresentato per una grossa fetta di gioventù italiana.

Guido Pallotta, così come altri della sua generazione e di quelle seguenti, amava la guerra come espressione della propria identità. Nel suo famoso decalogo, egli scrisse di preferire la guerra alla pace, la morte alla resa. Una frase e un... comandamento aberranti, ma se non si prova a calarsi nel periodo storico, mai si riuscirà a comprendere la ragione per cui ci furono migliaia di ragazzi né migliori né peggiori di tanti altri, che scelsero di rischiare la pelle in nome di Mussolini e del fascismo.

Non era, Pallotta, un pantafolaio. Tutt'altro. Era l'espressione stessa della vitalità e dell'attivismo. Disprezzava i borghesi non in quanto o, almeno, non soltanto come categoria economica, ma, in particolare, come categoria spirituale. Partì volontario per l'Africa Orientale partecipando alla conquista di Addis Abeba dalla quale esperienza trasse un grosso tomo di ricordi e considerazioni.

Poi, nel 1949, fece di tutto e anche di più per farsi mandare al fronte, lui che avrebbe potuto, visti i suoi incarichi e la stima che godeva a Roma, evitare accuratamente di rischiare la vita. Invece non soltanto volle andare in Libia, l'unico fronte, in sostanza e all'epoca, su cui si combatteva, ma chiese ed ottenne di essere aggregato al cosiddetto Raggruppamento Maletti al comando di un generale, appunto Pietro Maletti - il papà dell'ex generale nonché ex capo del reparto D (controspionaggio) del Sid negli anni Settanta Gianadelio Maletti attualmente ancora in vita, a 99 anni, e rifugiato in Sudafrica: qualcuno ricorda? - che aveva fama di essere un duro e che aveva dimostrato, soprattutto in Etiopia al fianco di Rodolfo Graziani, le proprie capacità militari arrivando a compiere, però, anche una strage-rappresaglia con circa 2 mila vittime su ordine del viceré di Etiopia all'indomani di un attentato del quale era stato bersaglio.

E proprio accanto al suo comandante, la mattina del 9 dicembre 1940, dopo che gli italiani avevano raggiunto e occupato l'avamposto di Sidi el Barrani, Guido Pallotta morì, secondo alcune testimonianze colpito da una raffica di mitra mentre stava cercando di lanciare una bomba a mano, per altri mentre stava recapitando un dispaccio, durante il tentativo di respingere la controffensiva inglese che, sfondando le posizioni nemiche, poté intraprendere il cammino fino al mare. Fu necessario l'arrivo di Rommel per rovesciare le carte. 

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