A Lucca è nascosta la chiave per risolvere un grande mistero legato alla storia dell’arte: anzi, due. Poco o nulla si sapeva dell’ebanista Riccardo Bruni, nonostante avesse lavorato a lungo a Firenze, alla corte dei Medici. Il suo vero nome era Richard Lebrun ed era originario di Parigi.
Negli archivi fiorentini sono registrati numerosi pagamenti a suo favore, eppure ad oggi era possibile attribuire con certezza all’ebanista francese una sola opera, la meravigliosa porta intarsiata conservata a Palazzo Pitti. E dire che il Gran Principe Ferdinando de’ Medici stravedeva letteralmente per lui: lo testimonia l’encomiastica lettera con la quale l’erede al trono del Granducato di Toscana aveva presentato al Duca di Mantova l’intarsiatore d’Oltralpe, in procinto di recarsi alla corte dei Gonzaga.
Per trovare l’ebanista parigino bisognava cercare a Lucca. Così ha fatto l’architetto Claudio Cagliero, uno studioso di ebanisteria residente in provincia di Torino, che è riuscito a tracciarne una prima biografia: «Richard Lebrun era giunto in Toscana da Parigi tra il 1683 ed il 1684 – spiega il ricercatore piemontese – e si era fermato a Lucca, dove si era sposato nel 1685. I documenti rinvenuti suggeriscono che sia stato introdotto in città da un suo connazionale, un mercante lionese. Gli scambi commerciali tra Lucca e Lione erano intensi fin dal Medio Evo, e la città francese costituiva uno snodo fondamentale sia per i viaggi dall’Italia con destinazione Parigi e le Fiandre, sia per i viaggi che prevedevano il percorso inverso. I fasti della corte medicea avevano un’eco internazionale e Lebrun si era presentato per dare un saggio delle sue eccezionali abilità di intarsiatore. Aveva subito conquistato il favore del Gran Principe Ferdinando, raffinato ed esigente mecenate».
Queste ricerche hanno anche permesso di riunire un corpus di arredi riconducibili alla mano dell’intarsiatore parigino: «L’attribuzione dei due celebri tavoli conservati nella Villa Medicea “La Petraia” di Firenze – continua Cagliero – non era accolta dalla critica in maniera pienamente unanime. Adesso invece si hanno le prove che sono stati realizzati da Richard Lebrun. Come affermato da Alvar Gonzalez-Palacios, forse il più noto esperto di arti decorative al mondo, i due tavoli de “La Petraia” sono stati realizzati con una maestria insuperata nel mobile europeo del periodo. Lebrun li ha realizzati quando aveva solamente 27 anni, ma era già in grado di reggere il confronto con i migliori intarsiatori del Vecchio Continente. Non a caso molti elementi portano ad ipotizzare che avesse affinato la propria tecnica presso l’atelier di André-Charles Boulle, il famosissimo Ebanista del Re di Francia. Siamo al cospetto di un grande maestro che deve ottenere il riconoscimento che merita nel panorama ebanistico internazionale».
Cagliero si riallaccia al tema principale delle sue ricerche: «Pietro Piffetti, il celebre Ebanista di Casa Savoia, è annoverato tra i più grandi ebanisti di tutti i tempi. I suoi mobili prodigiosi sono conosciuti in tutto il mondo, tuttavia la sua formazione artistica rappresentava un vero enigma. Nato a Torino nel 1701, sembra infatti riemergere dal nulla nel 1730, a Roma, quando viene richiamato in Piemonte da Carlo Emanuele III per ricoprire la carica di Ebanista di Sua Maestà. L’interesse degli studiosi era pertanto rivolto al suo soggiorno romano ed alla ricerca del maestro che nella città pontificia aveva permesso al giovane Piffetti di compiere quel salto di qualità che lo ha portato a diventare l’artista che tutti ammiriamo. Alvar González-Palacios aveva messo in luce il rapporto professionale tra Piffetti ed un altro ebanista parigino, Pierre Daneau: ciò che afferma lo studioso cubano è assolutamente incontestabile, ma nel 1730 Daneau aveva poco più di vent’anni e non poteva certo essere il maestro di Piffetti. L’ebanista torinese era dotato di un talento straordinario, ma per la sua maturazione era indispensabile la presenza di una guida esperta. Era invece già stato sottolineato che nelle prime opere dell’ebanista piemontese le influenze dell’ebanisteria franco-fiamminga trapiantata a Firenze sono fortissime. Oggi possiamo affermare che il maestro di Piffetti a Roma è stato Richard Lebrun, che si era trasferito nella Città Eterna nel 1725».
A Roma risiedeva un illustre artista lucchese: «L’ebanista francese – continua Cagliero – era lo zio di Giovanni Domenico Campiglia, pittore e calcografo che si era distinto a livello internazionale operando come disegnatore per incisioni tra Firenze e Roma. Ad esempio, era molto apprezzato in Inghilterra, presso i collezionisti più colti. La vicinanza agli incisori ed agli stampatori nell’orbita di Campiglia apre nuovi spiragli di ricerca sulla vastissima cultura di Piffetti».
Lucca potrebbe aver fatto la fortuna del futuro Ebanista di Casa Savoia: «Il suo soggiorno di perfezionamento a Roma era stato attentamente pianificato e si percepisce l’attenta regìa di Filippo Juvarra, che aveva soggiornato più volte a Lucca tra il 1706 ed il 1725. Proprio a Lucca Juvarra potrebbe aver constatato la perizia del maestro francese, che godeva di un’ottima reputazione presso l’oligarchica aristocrazia locale. In ogni caso, l’architetto messinese conosceva molto bene l’ambiente romano ed è lì che gli artisti andavano a perfezionarsi. Per Claudio Francesco Beaumont, futuro Primo Pittore di Gabinetto a Torino, Juvarra aveva scelto l’anziano maestro Francesco Trevisani. Anche in questo caso l’architetto dei Savoia aveva puntato sull’esperienza, visto che Lebrun era nato intorno al 1659».
I risultati di questa ricerca scientifica sono presentati nel volume “La formazione giovanile di Pietro Piffetti, Regio Ebanista alla corte dei Savoia”, edito dalla casa editrice Hever di Ivrea, uscito il 10 dicembre: «Avendo l’occasione di parlare a La Gazzetta di Lucca – conclude Cagliero – vorrei ringraziare pubblicamente tutto il personale dell’Archivio Storico Diocesano della vostra città, con una menzione speciale a Tommaso Maria Rossi, che mi ha seguito con grande pazienza ed estrema professionalità».