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Scritto da Michele Belfiore
Vite reali
06 Marzo 2024

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Massimo De Filippo è sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Busto Arsizio e presidente della locale sezione dell'Associazione Nazionale Magistrati. In questa lunga intervista racconta cosa significa fare il mestiere di magistrato nel XXI secolo:

Quando ha capito che voleva diventare magistrato?

Sono nato in una città del Sud Italia. Una splendida cornice vista mare, oggi sotto i riflettori della politica per l’opera ingegneristica di cui si parla da quando sono bambino, il famoso “ponte sullo Stretto”. Sono cresciuto negli anni '90, periodo in cui Reggio Calabria si trovava in piena “guerra di ‘ndrangheta”, la seconda per esattezza; un territorio in cui lo Stato ha faticato ad affermare il suo ruolo, lasciando spazio a logiche di potere di clan familiari che monopolizzavano interi territori. In questi contesti è spesso difficile preservare le garanzie dello Stato di diritto, tuttavia ho incontrato esempi di virtù che hanno avuto una forza trascinante. Dopo un periodo turbolento si è destata in me la passione per la conoscenza; per questa ragione, finite le scuole superiori, decisi di iscrivermi alla facoltà di Filosofia, dove poi mi laureai qualche anno dopo. Quegli anni sono stati fondamentali per la formazione della mia personalità. Ho sviluppato una riflessione filosofica sul bene e sul giusto che ha orientato i miei passi successivi. Dopo la laurea in giurisprudenza e l’abilitazione come avvocato ho compreso che avrei potuto valorizzare le mie attitudini svolgendo un servizio imparziale per il bene comune. Ho quindi deciso di partecipare al concorso in magistratura.  

Quali valori e insegnamenti le hanno trasmesso i suoi genitori?

I genitori e la famiglia sono il tessuto all’interno del quale si sviluppa la personalità. L’imprinting culturale ed affettivo della famiglia costituisce l’orizzonte di significato in cui si proiettano le scelte individuali. Se mi chiede di estrarre alcune delle qualità e dei precetti che ho recepito nel corso della mia evoluzione posso dire che mia madre mi ha trasmesso il valore dell’altruismo, la tenacia affiancata alla necessità di non accontentarmi, il rigore nei confronti di me stesso prima che con gli altri. E’ stata quella voce fuori campo che mi ha stimolato a non appiattirmi allo status quo per un continuo progresso cercando di lavorare a un cambiamento di quelle situazioni che si presentano inique. Da mio padre ho ereditato la passione per la conoscenza, era un insegnante di storia dell’arte e a lui devo l’amore per la bellezza, quella che non sempre è decifrabile, che talvolta non è manifesta, che invita alla pazienza. Quella bellezza che va accolta così com’è nella speranza che una rivelazione prima o poi si presenti. L’arte, come uno stato di grazia che salva, ma qualche volta dispera, l’arte intesa come uno slancio ideale, proprio così come era mio padre.

Una sentenza può essere condizionata dalla pressione dei media?

Gli organi di informazione hanno un ruolo determinante in un sistema democratico perché sono il principale formante della pubblica opinione. Le vicende giudiziarie, specie se legate alla commissione di gravi reati, sono per definizione di pubblico interesse; tuttavia l’accertamento dei fatti deve avvenire nei tribunali e secondo le regole previste dal nostro ordinamento. Le aspettative di giustizia, in alcuni casi, si scontrano con la verità processuale e con le norme di legge approvate dal Parlamento. Quando parlo di verità processuale intendo quello che è stato possibile provare durante il processo, il resto rimane fuori dalla decisione. Il nostro ordinamento prevede infatti diverse garanzie processuali, tra le quali c’è senz’altro la motivazione della sentenza che – per non essere viziata – deve fare esclusivo riferimento agli atti acquisiti durante la celebrazione del processo. Al magistrato può anche capitare di avere un intimo convincimento che non corrisponde a quanto emerso nel corso del giudizio. A volte il processo prende una piega differente rispetto all’esito dell’attività investigativa. L’esempio classico è quello del testimone che, in fase d’indagine, ha reso un certo tipo di dichiarazioni e invece durante il processo contraddice la precedente versione. Conta solo quello che può essere provato in sede processuale e il nostro sistema, per i casi dubbi, prevede l’assoluzione dell’imputato. Pertanto la verità processuale non sempre coincide con la verità storica dei fatti e, in alcuni casi, la sentenza può non rispecchiare le aspettative dell’opinione pubblica. Questo accade anche perché il magistrato applica la legge, che è creata non da lui, ma dal Parlamento. Per rispondere alla sua domanda, la pressione mediatica si ferma sulla soglia dei Palazzi di Giustizia; ciononostante, ritengo che possa diventare un fattore di condizionamento se strumentalizzata da esponenti politici che, sempre più di frequente, assumono posizioni delegittimanti del ruolo della magistratura e del magistrato che si occupa di singoli casi, sortendo un vero e proprio effetto intimidatorio che deve essere censurato.  

Lei ha promosso una riflessione insieme a altri suoi colleghi, di disappunto sulla riforma Cartabia. Quali sono le norme che non approva?

Abbiamo promosso una critica alla cosiddetta riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario; la nostra posizione di dissenso si è tradotta in un documento approvato in diverse sedi giudiziarie d’Italia (tra cui Milano, Roma e Napoli) e in un appello intitolato “Facciamo Presto!”, che ha raccolto centinaia di adesioni di magistrati in pochi giorni e a cui è seguita un’Assemblea Generale dell’Associazione Nazionale Magistrati che ha deliberato lo sciopero. L’ordinamento giudiziario stabilisce le regole di funzionamento della magistratura, che devono garantire – come previsto dalla Costituzione – l’indipendenza del giudizio, scongiurando ogni possibile condizionamento. La ragione è piuttosto intuitiva: ogni cittadino deve essere uguale davanti alla Legge e i condizionamenti nell’esercizio della funzione giudiziaria si traducono in un pregiudizio del principio di uguaglianza. Sotto questo profilo, noi riteniamo che la riforma Cartabia sia una pessima legge perché ha introdotto delle norme che possono incidere negativamente sull’indipendenza del magistrato. Ci sono diversi punti della riforma per cui abbiamo espresso il nostro dissenso, in questa sede mi limiterò a passarne in rassegna alcuni. E’ stato previsto il diritto di voto degli avvocati nella valutazione professionale dei magistrati. L’aspetto problematico è rappresentato dai probabili conflitti d’interesse. Il tema diventa particolarmente delicato in sede penale dove la contrapposizione, a volte, può essere forte – penso soprattutto a contesti in cui esiste una situazione ambientale difficile per la presenza di organizzazioni criminali, oppure, ai casi di imputati ‘eccellenti’ –. Ebbene, per semplificare, l’avvocato che quotidianamente affronta cause e processi potrà valutare la professionalità proprio di quei magistrati che hanno rigettato le sue richieste. Mi domando se il giudizio di una parte in causa possa effettivamente essere distaccato dall’interesse professionale perseguito: si immagini all’ipotesi di un magistrato che ha assunto un provvedimento sgradito alla difesa dell’indagato/imputato o della persona offesa. Questa norma si presta a possibili strumentalizzazioni. Diciamo che questo potrebbe diventare un mezzo di pressione implicito o esplicito: “mi hai dato torto in un processo importante, la mia valutazione sul tuo operato sarà negativa”. E’ chiaro che poi la differenza la fanno le persone, tuttavia la legge dovrebbe neutralizzare i potenziali conflitti d’interesse anziché crearli. Il magistrato deve possedere i requisiti di indipendenza e imparzialità, caratteristiche che devono essere riconosciute anche in capo a chi lo valuta. Non avrei obiezioni se contribuisse alla valutazione un professore universitario che però non eserciti la professione di avvocato perché, in questo modo, si neutralizzerebbe in nuce il possibile conflitto d’interesse. Ho il massimo rispetto per l’avvocatura e sono convinto che i problemi della giustizia debbano essere affrontati favorendo una effettiva concertazione; devo però purtroppo constatare che la riforma ha creato invece delle ambiguità, anziché una condivisione degli oneri nel rispetto dei ruoli. La novella legislativa ha poi introdotto dei parametri aziendalistici nella gestione dei casi – ovviamente a risorse invariate – schiacciando l’attività giudiziaria in una morsa contabile di “smaltimento” dei procedimenti. Si tratta di un approccio che disumanizza e che pone le premesse culturali di un magistrato burocrate. Ogni fascicolo giudiziario ha che fare con la carne viva delle persone, la valutazione di un caso necessita della massima attenzione e non può tradursi in numeri astratti da processare e smaltire. Ritengo che questa sia un’impostazione molto pericolosa. Ci sarebbe molto altro, ma mi fermo qui.

Sono 1028 i magistrati, giudici e pubblici ministeri che hanno sottoscritto un documento inviato, tra gli altri, al presidente del Consiglio e al ministro della Giustizia in cui esprimono "la più viva preoccupazione per la riforma costituzionale che si propone di introdurre la separazione delle carriere". Il suo pensiero?

In Parlamento sono stati presentati diversi progetti di legge di riforma costituzionale con lo slogan della “separazione delle carriere”, si tratta di proposte sostanzialmente sovrapponibili che, se approvate, cambierebbero il volto della Costituzione. La preoccupazione per i pericoli derivanti da questi progetti di riforma è stata espressa in un primo documento che ha raccolto l’adesione di centinaia di magistrati in pensione a cui è seguita la raccolta adesioni ad un secondo documento promosso da magistrati in servizio – quello a cui ho fatto cenno. Il tema è della massima serietà perché l’assetto costituzionale disciplina equilibri molto delicati, garantendo il bilanciamento dei poteri. L’obiettivo perseguito dai costituenti era quello di scongiurare l’accentramento del potere. La Costituzione ha previsto che giudice e pubblico ministero benché svolgano funzioni differenti devono appartenere allo stesso ordine giudiziario. Quando si parla di “separazione delle carriere” si rischia di non avere ben chiari i termini della questione. Se dovessi rifarmi allo slogan, si tratterebbe di creare – con riforma costituzionale – due magistrature distinte: una deputata a giudicare, l’altra ad accusare. La giustificazione di questa riforma sarebbe individuata nella necessità di rendere il giudice imparziale rispetto al pubblico ministero; si sostiene che la semplice circostanza (prevista dai costituenti) che pubblico ministero e giudice facciano parte dello stesso ordine giudiziario sia sufficiente a dimostrare l’appiattimento di quest’ultimo sulle posizioni sostenute dal primo. Per fare un esempio concreto, il giudice sarebbe indotto a dare ragione al pubblico ministero e, quando questi chiede la condanna dell’imputato, difficilmente potrebbe esserci un’assoluzione, perché il giudice sposerebbe la posizione del collega – che fa parte del suo stesso ordine giudiziario –. La tesi viene affermata, in modo sorprendente e con forza, anche da chi non vede conflitti d’interesse nel voto attribuito agli avvocati nella valutazione di professionalità dei magistrati. Tuttavia, l’argomento della parzialità del giudice nei riguardi del pubblico ministero viene immediatamente smentito dalle statistiche: circa il 50% dei giudizi penali si conclude con una sentenza di assoluzione dell’imputato. Questo dato rappresenta di per sé una piattaforma oggettiva per affrontare con onestà intellettuale la questione. Occorre fare una precisazione di merito. Il giudice e il pubblico ministero esercitano entrambi una funzione giudiziaria e hanno il dovere – a differenza dell’avvocato – di essere imparziali. Il pubblico ministero non è l’accusatore, ma un organo di giustizia e, pur essendo parte nel processo, non può esprimere giudizi parziali, ma valuta le prove allo stesso modo del giudice e svolge la sua funzione anche a garanzia dell’indagato/imputato. E’ una ‘parte’ in senso improprio, perché è imparziale e persegue una finalità di giustizia che non coincide necessariamente con la condanna dell’imputato. Anche per esperienza personale posso dire che, se all’esito di un processo non dovessi riuscire a dimostrare la responsabilità penale dell’imputato, avrei il dovere di chiedere l’assoluzione – come in alcuni casi mi è capitato di fare. La stessa cosa non accadrebbe se si riconfigurasse la funzione del pubblico ministero trasformandola in quella dell’accusatore, dove l’interesse esclusivo perseguito, anche dal punto di vista statistico, diventerebbe la condanna dell’imputato.  Sorge dunque spontanea una domanda: in che termini sganciare il pubblico ministero dall’ordine giudiziario renderebbe un servizio migliore ai cittadini? Sarebbero più garantiti dalla figura di un accusatore ante litteram? Ritengo di no. Inoltre un’operazione di questo genere espone a rischi ulteriori: sottoporre il pubblico ministero al controllo del Governo di turno che ne indirizzerebbe l’attività giudiziaria a seconda dell’interesse politico del momento. A ben vedere lo pseudo-argomento della parzialità del giudizio – sconfessato anche dal dato statistico – rappresenta un artifizio retorico finalizzato a giustificare lo stravolgimento dell’intero assetto costituzionale. Se esaminiamo le proposte di riforma sulla separazione delle carriere osserviamo che, in realtà, ripensano integralmente l’ordine giudiziario. Si prevede, ad esempio, la creazione di due distinti ‘organi di controllo’ della magistratura (per Giudici e Pm) composti per il 50% da membri eletti dal Parlamento – quindi designati dalla politica – e il reclutamento di una quota di magistrati, senza concorso pubblico – quindi, anche in questo caso, per gradimento politico. Mi sembra evidente che questa prospettiva di riforma comprometta l’autonomia e l’indipendenza della magistratura a danno dei cittadini. Pertanto la cosiddetta “riforma della separazione delle carriere” si traduce nella riforma dell’intero ordine giudiziario, nella direzione di un condizionamento diretto della magistratura da parte della politica.  Il Governo non ha ancora presentato un progetto di legge sulla “separazione delle carriere”, anche se il Ministro della Giustizia dott. Nordio l’ha più volte annunciato come imminente e il Vice-ministro l’avv. Sisto non perde occasione di ribadire, come se fosse una questione cruciale per le sorti del Paese, che la riforma si deve fare e si farà. Auspico che il Governo riesca a temperare le pulsioni di alcuni esponenti di maggioranza e che affronti la questione con la massima prudenza e sobrietà, perché la Costituzione non può essere manomessa all’esito di una ‘guerra di religione’ scatenata da un approccio fanatico e pregiudiziale. Sottolineo inoltre che, per la tenuta del sistema, ogni modifica della Carta fondamentale – specie se di tale rilevanza – deve essere ampiamente condivisa dalla stragrande maggioranza del Popolo italiano. Se le intenzioni venissero confermate, non potremmo esimerci, in qualità di cittadini prima ancora che come magistrati, dal fare tutto il possibile per rievocare una coscienza storica offrendo la nostra testimonianza civica.  Consapevoli della gravità del momento, l’Associazione Nazionale Magistrati ha programmato degli incontri con la cittadinanza per spiegare l’importanza di preservare l’attuale assetto costituzionale di equilibrio e bilanciamento dei poteri dello Stato. Invito ciascuno, in qualità di cittadino a prenderne parte alle iniziative che, dal mese di marzo, le sezioni dell’ANM organizzeranno sul tutto il territorio nazionale, perché la giustizia è un bene comune da preservare e tutelare.  

Lo youtuber Matteo Di Pietro patteggia 4 anni e 4 mesi ed evita il carcere: muore un bambino, Manuel, aveva solo 5 anni. Di Pietro andava a 120 km orari, mentre faceva dei video per il suo canale YouTube. Cosa ne pensa?

Esprimo la mia vicinanza alla famiglia del piccolo Manuel. E’ una tragedia che sconvolge la vita di questa famiglia e che non permette di trovare parole di consolazione.  Non conosco gli atti processuali e, pertanto, non posso esprimermi sul merito; tuttavia posso dire che giudice e pubblico ministero sono soggetti alla legge (approvata dal Parlamento) e hanno l’obbligo di applicarla. La legge prevede la misura astratta della pena irrogabile e individua anche le circostanze aggravanti e attenuanti; sempre la legge consente poi all’imputato di accedere a riti premiali da cui discendono consistenti sconti di pena: per il patteggiamento la riduzione della pena fino a 1/3 e per il giudizio abbreviato lo sconto è di 1/3.  Per fare un esempio concreto, in un caso di omicidio doloso (la vicenda Di Pietro è differente perché rientra nella norma dell’omicidio stradale che è colposo e ha una pena di gran lunga inferiore) la legge stabilisce un minimo di pena 21 anni di reclusione; se l’imputato scegliesse il rito abbreviato, anche in caso di condanna a 21 anni, beneficerebbe in automatico, in quanto previsto dalla legge (quindi senza una valutazione ulteriore da parte del giudice), di uno sconto di pena di 7 anni e verrebbe quindi condannato a 14 anni di reclusione. Inoltre, senza scadere in tecnicismi, ad esempio sempre la legge prevede che, a determinate condizioni, il condannato a una pena detentiva fino a 4 anni, o che abbia già scontato la parte eccedente, possa rimanere fuori dal carcere per eseguire la pena in modalità diverse. Ancora la legge stabilisce che le forme di detenzione domiciliare siano da equiparare alla detenzione carceraria – ad esempio un anno di arresti domiciliari è considerato come un anno di carcere. La riforma Cartabia ha anche potenziato gli strumenti che limitano il ricorso alla detenzione. Dico questo per cercare di spiegare che il magistrato esercita una discrezionalità, ma le regole del gioco sono stabilite dal Parlamento. Ci sono casi giudiziari che suscitano clamore – posso comprenderlo perché il nostro sistema penale è molto complesso e farraginoso – non è però accettabile la strumentalizzazione volta ad alimentare un conflitto tra poteri dello Stato. I rappresentati del popolo, soprattutto se esponenti di Governo, non dovrebbero delegittimare i capisaldi dello Stato di diritto. Ritengo che sia giunto il momento di superare i conflitti mettendo al centro il servizio che dobbiamo rendere, poiché solo in un’ottica di leale collaborazione, nel rispetto dei ruoli, possono essere individuate soluzioni condivise ed efficaci che diano reali risposte ai cittadini.

Che vita fa un magistrato?

Spesso si parla dei privilegi di cui gode chi esercita questa funzione, lasciando in ombra quelli che sono gli oneri e le difficoltà che caratterizzano il lavoro del magistrato. Mi riferisco in particolare alle responsabilità, alla fatica del decidere, al rispetto delle procedure (molte farraginose) con ritmi serrati in cui devono essere incanalate le vicende umane racchiuse in un fascicolo, la cronica carenza di risorse che dilata i tempi di lavoro. Ci sono poi realtà difficili in cui si manifesta l’aperta ostilità nei confronti della magistratura, mettendo a repentaglio la vita stessa del magistrato. Svolgo la funzione di pubblico ministero e per rispondere alla sua domanda cercherò di restituire una porzione della mia quotidianità. Giusto per intenderci, quando ho preso servizio, mi sono stati assegnati circa 3000 procedimenti e ogni anno ne arrivano un migliaio di nuovi. Si tratta di una mole imponente e, tuttavia, questi fascicoli non possono diventare pratiche burocratiche da “smaltire” a crocette, come vorrebbe la riforma Cartabia, perché racchiudono istanze di giustizia e la sofferenza delle vittime, su cui non basta dire sì o no, la realtà è ben più complessa e faticosa: innumerevoli fatti vanno accertati ed esaminati con il massimo scrupolo in quanto ogni decisione incide sulla sfera personale e sociale di un individuo. Queste attività necessitano di tempo, così come il cardio-chirugo quando opera, se non vuole uccidere il suo paziente, deve essere competente, cauto e non frettoloso. Il problema dei tempi della giustizia non può essere risolto accorciando i tempi necessari per accertare i fatti e decidere – questa è la strada dell’errore –  ma fornendo mezzi e risorse adeguate ai flussi di lavoro, di questo però è responsabile il Ministero della Giustizia. Voglio sottolineare che la stragrande maggioranza degli uffici ha un organico inadeguato che non consente di gestire i flussi continui di processi e di notizie di reato – migliaia – e addirittura capita che la malattia di un collega o la maternità possano mandare in crisi un ufficio che già si ritrovava sottodimensionato.  E così, con risorse ridotte al lumicino, si approntano piani di gestione che consentano di graduare le priorità cercando di trattare il maggior numero di procedimenti possibili. Nel quotidiano esamino diverse istanze a cui devo dare una pronta risposta, studio i fascicoli e istruisco le indagini, provvedo con urgenza sulle misure cautelari, studio i processi a cui devo partecipare e con cadenza mensile – per almeno 4 giorni consecutivi – sono di turno urgenze e arresti. Spiego cosa è il turno del Pm. Ogni Procura della Repubblica deve avere, a turnazione, un pubblico ministero sempre reperibile dalle forze dell’ordine, con telefonate a qualsiasi ora del giorno e della notte, per tutte le urgenze (arresti, omicidi, incidenti, morti sospette etc.) che si presentano nel territorio di competenza dell’ufficio. Può capitare di dover uscire nel cuore della notte per fare sopralluoghi e interrogatori o per sentire testimoni. Se la polizia giudiziaria procede a degli arresti, il pubblico ministero deve preparare gli atti in tempi rapidissimi che, se non rispettati, determinano per legge il rilascio dell’arrestato. Insomma, si tratta di una sorta di pronto soccorso della legalità. Il pubblico ministero non ha orari di lavoro e, spesso, deve lavorare anche nei giorni festivi (ma la stessa cosa accade per il giudice). Non esiste una barriera tra casa e ufficio. Spesso mi è capitato di dover gestire attività d’indagine anche durante le ferie e lontano dall’ufficio. Il magistrato talvolta, suo malgrado, si trova costretto ad applicare leggi – le quali, ricordiamolo, vengono discusse e approvate in Parlamento – che potrebbero non coincidere o addirittura urtare il comune senso di giustizia. Questo è un punto cruciale che vorrei sottolineare: la percezione delle disfunzioni della giustizia spesso non è correlata ad una effettiva conoscenza della realtà – sia normativa che di risorse destinate – la cui rappresentazione risulta falsata dalla ricerca di clamore mediatico e da una  bieca e pericolosa propaganda (deleteria per la credibilità delle istituzioni dello Stato). E’ più facile dire che c’è un vuoto di giustizia, che si gode nel privilegio, che non c’è certezza della pena, piuttosto che analizzare le ragioni effettive di questa percezione sociale. Devo tuttavia constatare che questa mistificazione della realtà è stata possibile anche per nostra responsabilità: avremmo dovuto pretendere dalla politica (che ci accusa) lo stanziamento delle risorse necessarie per poter amministrare la giustizia e insistere in tutte le sedi, coinvolgendo attivamente la società civile.  Come Associazione Nazionale Magistrati ci siamo imposti di cambiare il registro comunicativo. E’ venuto il tempo di dire la verità ai cittadini senza esitazione e fuori dai tecnicismi.  Come ho già accennato, a marzo sarà previsto un primo grande evento declinato in ciascuna realtà territoriale che porrà al centro i grandi temi della giustizia oggetto del dibattito pubblico.

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