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Scritto da Redazione
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16 Marzo 2020

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Prima del Coronavirus vivevamo come in un incantesimo. Ci sentivamo onnipotenti, davamo tutto ormai come scontato, la tecnica ci illudeva di avere tutto sotto controllo, liberi di muoverci, viaggiare e riempire ogni singolo momento della nostra giornata di impegni lavorativi, sportivi, amicali. Poi all’improvvisto un nemico invisibile, inaspettato, imprevisto, si diffonde tra noi, ci blocca e pone il mondo in una attesa piena di angoscia. Come ha affermato il filosofo Galimberti nella trasmissione “Frontiere” del 9.3.2020, noi occidentali viviamo la morte con paura ed angoscia perché abbiamo perso il contatto con essa e non abbiamo la capacità di elaborarla e quindi affrontarla.

Questa riflessione mi ha riportato alla memoria il tema contrale del master “Accompagnamento spirituale nella malattia e nel morire”, diretto dal Padre Guidalberto Bormolini che ho frequentato a Prato lo scorso anno. Le varie lezioni avevano come filo conduttore la sostanziale indifferenza verso la morte ed il morire nella nostra società. Viviamo in un epoca death-free distratta dalle essenziali questioni della vita e cieca davanti alla possibilità di vedere la morte non come l’opposto della vita bensì come la sua continuazione.

Il momento drammatico in cui stiamo vivendo ha suscitato in me il desiderio di condividere alcune mie considerazioni e riflessioni su questo argomento.

E’ opinione comune degli studiosi di tanatologia (di coloro cioè che studiano la morte nei suoi aspetti legati sia alla medicina legale ma anche all’antropologia, alla psicologia ed alla filosofia) che nella nostra società l’idea della morte venga sempre più negata in un rapporto inversamente proporzionale al modo in cui viene invece continuamente presentata in televisione, nei cartoni e nei video giochi. Quando la morte arriva sia in modo improvviso e violento oppure dopo una lunga malattia ci trova allo stesso modo impreparati e nonostante siamo abituati alla sua fantasmagorica spettacolarizzazione, alla quale la televisione ed i mass media ci hanno abituato, ci traumatizza.

Un meccanismo di rimozione che ha origine sia nello “spirito del tempo” che nella eccessiva fuga dall’interiorità che quotidianamente ogni individuo compie. Ma come siamo arrivati a questo punto?

La responsabilità più grande grava sui genitori. I nuovi modelli di famiglia presenti nella nostra società, tra i quali spiccano il modello iperprotettivo e quello democratico-permissivo, non prevedono nelle loro premesse fondanti una educazione alla resilienza ed alla sopportazione della frustrazione del limite, mentre l’introduzione del concetto di limite ha una valenza educativa insostituibile.

Nella famiglia iperprotettiva i genitori, per paura che il bambino perda la serenità, soffra e si traumatizzi occultano tutte le brutte esperienze ed in particolare la morte, non ne parlano, inventano storie improbabili o cambiano discorso se il bambino fa domande al riguardo. Facendolo vivere come in una bolla protettiva, lontano dalle emozioni negative quali la paura, il dolore, l’angoscia, il terrore non potrà diventare resiliente, forte, cioè competente di fronte alla inevitabili difficoltà della vita ed alla sua precarietà, ma anzi apparirà “un pò tonto”, come nelle nuvole, ingenuo di fronte ai suoi pari che potranno prenderlo in giro ed anche renderlo oggetto di bullismo.

I genitori democratico-permissivi, dal canto loro, pensando che il figlio sia nato già imparato e sappia come comportarsi, crederanno che non sia necessario sottoporlo ad un percorso educativo che rispetti le varie fasi dello sviluppo evolutivo. Sono fermamente convinti che già a due, tre anni sia un piccolo adulto in miniatura, senza bisogno di un percorso emotivo, di restrizioni educative e di limiti ed addirittura ne sappia più di loro. Tutto ciò li porterà a porsi allo stesso livello relazionale del figlio ed a comportarsi con lui come amici e non come guide. In questo contesto il problema della morte nemmeno si pone in quanto questi adulti, che si sentono e si comportano come amici dei figli, sono così impegnati a vivere la loro eterna adolescenza che mettono loro stessi in atto una profonda rimozione dell’idea di morte. Meglio vivere in un eterno presente dove l’invecchiare e la morte non esistono, in una dimensione più esteriore dove l’apparire domina l’essere e la sostanza, dove il tuo valore è dato dalle conferme degli altri, fino all’aberrazione del fenomeno degli “influencers”, anche se non sei niente e non sai fare niente, l’importante è che gli altri ti confermino con i “like” e le visualizzazioni. Questi valori, che passano in modo inconsapevole ai figli, mettono questi in un disorientamento continuo perché le mode subentrano alle regole della famiglia e della società ed il super-io (in senso freudiano) diventerà ancora più liquido e mutevole, per dirla alla Baumann.

Per uscire da questo impasse, secondo me, sarebbe necessario che i genitori da parte loro cominciassero a coltivare la saggezza, il senso di responsabilità e soprattutto l’autorevolezza, diminuendo, gradualmente, l’investimento di energia nel benessere esclusivo del corpo, nell’estetica e nei piaceri mondani. Facciano finalmente gli adulti! Cioè si impegnino a creare un ambiente educativo utile al processo evolutivo del diventare grandi che oggigiorno si è arrestato. Chi, infatti, insegna più ai giovani la consapevolezza di sé, il contatto con la propria interiorità, i valori morali e la spinta ad una propria autonomia sia economica che di pensiero?

A discolpa dei genitori c’è il fatto che la scomparsa della famiglia patriarcale nella nostra società, e la sua sostituzione con la nuova famiglia nucleare prima e con quella monoparentale poi, ha prodotto la rottura con la comunità allargata in cui era inserita, venendo così a mancare la condivisione di riti collettivi di fronte alla malattia, alla morte ed al dopo morte. La famiglia è rimasta sempre più sola ed è caduta in questa trappola perché i contatti con la comunità, con i vicini di casa sono stati sostituiti con la tecnologia ed i moderni strumenti di comunicazione di massa. A questo fenomeno va inoltre aggiunto l’enorme sviluppo della scienza medica che ci ha illuso perché è potente ma non onnipotente: Le metodiche e le tecniche mediche hanno reso possibile un incredibile allungamento della vita anche in presenza di malattie croniche. Hanno procrastinato l’incontro con la morte, tanto da far sperare di vivere fino a 120 anni, ma hanno anche portato a morire lontano dalla nostra casa, negli ospedali, attaccati a macchinari indispensabili alla sopravvivenza o sottoposti a metodiche praticabili solo in centri attrezzati occultando, di nuovo, il processo del fine vita, della morte e del post-mortem.

Segnali di una mancata elaborazione dell’idea di morte giungono, infine dalla diffusione di quelle mode giovanili estreme in cui si gioca con la propria morte: il drogarsi alla cieca, il binge-drinking, il guidare a velocità estrema filmandosi, il saltare da un treno all’altro in corsa e, negli ultimi giorni, nonostante i divieti imposti dal nostro Governo per la salvaguardia della salute di tutti noi, riunirsi in gruppi su spiagge, piazze, pubs e fuggire dalle zone più a rischio per tornare nelle loro famiglie d’origine in altre regioni mettendo a repentaglio la salute dei loro genitori e nonni (immagini che hanno suscitato incredulità e sdegno in tutti noi). Ma quanto fragili devono essere le identità di questi giovani per andare contro l’istinto di sopravvivenza e rimanere attaccati al gruppo perché, altrimenti, da soli non esistono?

La mia speranza è che quando finalmente usciremo da questa pericolosa situazione di grande crisi sanitaria, economica e finanziaria rivedremo il nostro stile di vita, più ispirato alla calma, alla lentezza ai piccoli piaceri e valori ritrovati nella nostra interiorità e rivisiteremo anche il nostro stile educativo come genitori. Se i nostri figli non rispettano le regole e le gerarchie, quindi noi, significa che non siamo stati in grado di educarli all’idea del limite, dal più piccolo al più estremo, la morte. Se non si assumono le loro responsabilità e si appoggiano a noi in tutto e per tutto e non riusciamo a gestirli ed a scrollarceli di dosso, facciamoci aiutare partecipando a sedute, incontri, corsi di formazione perché fare i genitori nella nostra epoca è davvero difficile ed il nemico n.1 per i nostri figli, e di conseguenza per noi, è la deresponsabilizzazione personale e sociale che ricadrà su di noi e la società perché dovremmo mantenerli a vita e proteggerli da loro stessi.

 

Bibliografia

I Testoni, G. Bormolini, E Paci, L.Vero Tarca (a cura di) Vedere Oltre, Edizioni Lindau, 2015

G. Nardone, E. Giannotti, R. Rocchi: Modelli di Famiglia, Ponte alle Grazie, 200

 

Emanuela Giannotti

psicologa-psicoterapeuta

Via della Polveriera, 6 55100 Lucca

347 7705359

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www.terapiabrevestrategicalucca.it

 

 

 

 

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