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Riceviamo e pubblichiamo integralmente questo intervento di Claudio Pardini Cattani e Oriana Rispoli, per 'Uniti per la Manifattura', sul concetto di rigenerazione urbana e sul progetto della ex Manifattura Tabacchi:
"L'architetto Renzo Piano, all'indomani della sua nomina (30 agosto 2013) a senatore a vita, affermò in un'intervista che i guadagni derivanti da quella nomina li avrebbe impiegati per costituire un gruppo di giovani architetti con i quali avrebbe elaborato progetti sulle periferie, considerate fondamentali per ripensare le Città. Introdusse in tale occasione il concetto di rammendo. Tale concetto non era poi così originale.
Nella facoltà di architettura di Firenze, negli anni '80 del secolo scorso si affrontava già la questione delle periferie nei termini posti molto dopo dall'architetto Piano, ma ancor prima, negli anni '70, erano state formulate importanti riflessioni sulle periferie e sulle Città dall'architetto Paolo Portoghesi, il quale affermava che "le periferie sono uno stupendo canovaccio per costruire le Città del domani".
Sentire quindi nei giorni scorsi i media osannare il Ceo di Coima Manfredi Catella, il Ceo imprenditore Salini e l'architetto Renzo Piano a proposito dei loro discorsi sulla rigenerazione delle Città e delle periferie, come se avessero avuto un'intuizione originale, lascia perplessi e risulta più che altro come un tentativo forte di imporre un paradigma culturale applicato in maniera non condivisibile, perché finalizzato al solo business for business. L'attuale vicenda dell'ex Manifattura Tabacchi a Lucca ne è un esempio eclatante.
Quando sono i CEO della finanza e/o dell'edilizia a dettare le regole per il futuro delle Città, comprese le Città storiche, vuol dire che una parte della cultura è svanita nel nulla e un'altra è scesa a compromessi spesso inquietanti.
Qualche giorno fa abbiamo avuto modo di ricordare e riflettere sul Masterplan che la Provincia di Lucca ha elaborato e presentato nella primavera del 2019. L'oggetto di tale documento era la rifunzionalizzazione del Palazzo Ducale, l'unica reggia napoleonica in Italia. Il Masterplan si proponeva di procedere al restauro del palazzo, sulla scia di quello che si era già cominciato a fare un ventennio prima, e di rivedere le funzioni al suo interno con possibili eventuali ricollocazioni, privilegiando la dimensione monumentale, culturale, espositiva che il complesso in questione esprime. Anche i cortili esterni erano interessati da tale progetto, nella prospettiva di liberarli dai parcheggi (Cortile degli Svizzeri).
Un fatto da mettere in evidenza è che il Masterplan in questione non si riduceva ad esaminare il singolo complesso monumentale, bensì considerava tutta l'area circostante, il contesto, la Città con le sue emergenze architettoniche monumentali, con le sue dinamiche e i suoi percorsi. In particolare, metteva il Palazzo Ducale in relazione con le altre emergenze architettoniche monumentali: anche la Manifattura era ricompresa in questa concezione, così come tutta quella parte di città che si "trovava nel mezzo", e ne venivano analizzate funzioni, immagine, dimensioni, appunto prendendo atto di relazioni che restituivano una realtà, una visione della Città. Questa interpretazione "relazionale" ricorda in chiave più evoluta l'interpretazione della teoria quantistica (Helgoland C. Rovelli), la quale afferma che tutte le entità, relazionandosi si influenzano, e che attraverso la relazione si origina la realtà, intrinsecamente caratterizzata da equilibrio e armonia.
Questa "via di relazione" percorsa nel Masterplan sul Palazzo Ducale è oggi completamente disattesa nel Masterplan presentato per la Manifattura sud e in particolare per l'oggetto del project financing, limitato ai parcheggi. In questo caso emerge una totale assenza di "relazionalità", si ragiona in modo puntiforme, disconnesso dall'intorno, dalla Città, e così facendo, si punta a realizzare "una città nella Città", autoreferenziale, appunto mancante di relazionalità.
Paradossalmente di quel Masterplan su Palazzo Ducale, datato primavera 2019, si è parlato poco, anzi quasi per nulla. In quella circostanza Luca Menesini, presidente della Provincia, avallava una visione che non dovrebbe essere lasciata cadere nel vuoto e che ricomprende tutto il settore sud del centro storico di Lucca, a partire dal Palazzo Ducale sino appunto alla Manifattura. Nel ripensare la Manifattura sud, dunque, la visione dovrebbe essere allargata, scartando così proposte/progetti mancanti non soltanto di un inquadramento di tutto il complesso Manifattura, ma anche di una visione che abbracci l'intero centro cittadino, condizione invece essenziale per realizzare "rigenerazioni urbane" che si inseriscano nel tessuto connettivo della Città e restituiscano un "valore aggiunto", nel solco delle tradizioni culturali espresse.
Questo è ciò che serve per conservare, salvaguardare e valorizzare il carattere identitario di un luogo che ha sempre costituito un punto di riferimento significativo, e che ha donato ai suoi abitanti, ai suoi visitatori, l'auspicata sensazione di "sentirsi a casa". I Lucchesi nel mondo ne sono la riprova".
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Erano gli anni ´70 quando nacque lo streetwear: quella che ora è considerata una moda, è nata come una vera e propria subcultura. Cosa pensiamo quando diciamo streetwear? Sicuramente ci vengono in mente le immagini dei rapper della West Coast, il Bronx, il ghetto, le tute adidas, i catenoni e le famose sneakers bombate.
Quali sono le origini dello streetwear?
Questo stile è nato come una vera e propria filosofia di vita e possiamo dire che le origini dello streetwear nascano dal punk. Ragazzi che sentivano il bisogno di identificarsi in un’ideologia ed in uno stile di vita specifico iniziarono a personalizzare ed abbinare gli abiti in maniere particolari: il classico esempio sono i jeans strappati.
Lo streetwear vero e proprio però, è quello che si sviluppò nella California degli anni ’80, quando Shawn Stussy, designer di tavole da surf, iniziò a creare un marchio di abbigliamento, trasferendo i disegni che metteva sulle tavole da surf, sulle magliette. Il marchio di Stussy diventò un punto di riferimento per gli appassionati di surf e skateboard e dopo aver acquisito celebrità nella East Coast, conquistò piano piano prima la West Cost, con il primo negozio Stussy aperto a New York, e poi tutto il mondo. E come si dice…il resto è storia. Ad oggi, infatti, è possibile acquistare questo tipo di abbigliamento su negozi streetwear online dedicati a questo tipo di stile.
Il socio di Stussy, James Jebbia, fondò il marchio Supreme, celebre marca legata indissolubilmente allo skateboarding. Chi acquistava i capi di Stussy e di Jebbia, lo faceva per sentirsi parte di un mondo esclusivo, quello della street appunto. La caratteristica principale del loro modello di business era che, per accrescere l’aspettativa nei fan, i pezzi disponibili erano sempre limitati e rilasciati in speciali giorni della settimana.
Come si è diffuso lo streetwear e chi sono gli hypebeast
Lo streetwear come lo conosciamo oggi, è quello portato alla ribalta dai gruppi rap ed hip hop, primi fra tutti Run DMC, con le loro tute Adidas oversize, i berretti in feltro e le sneakers. Questo genere di abbigliamento era perfetto per la break dance e incominciò a prendere piede tra le maggiori crew, evolvendo poi in altri modi, come per esempio nella street-couture: abiti firmati da stilisti di alta moda, che si rifacevano allo streetstyle e che venivano indossati dalle maggiori star rap del momento.
Ancora oggi, lo streetwear è visto come simbolo di esclusività, tanto che esiste una parola che indica le persone che vanno alla ricerca o che collezionano pezzi esclusivi di streetwear: gli hypebeast.
Gli hypebeast amano andare alla ricerca di abiti, scarpe ed accessori in edizione limitata. Questi si possono trovare raramente nei negozi fisici, ma esistono molti siti online, dove è possibile trovare pezzi rari, esemplari di scarpe esclusivi, prodotti solo in numero ridotto e molto altro ancora.
Il concetto principale della filosofia hypebeast è e rimane l’esclusività, ma ciò che è cambiato dagli anni ’80 ad oggi, è sicuramente il significato che si può dare oggi a questo aggettivo. Se negli anni ’70 i ragazzi della street volevano essere esclusivi identificandosi in un gruppo, come i surfers, gli skateboarders ed i rappers, quello che viene evidenziato oggi, attraverso l’acquisto di capi in edizione limitata, è l’esclusività nel vero senso della parola: chi è in possesso di un determinato capo di abbigliamento, desidera poterne fare sfoggio.